REGIONI E SAPORI

Dicono “gli italiani mangiano sempre e quando non lo fanno parlano di cibo”.
È uno stereotipo? Forse… sicuramente è vera la nostra incredibile passione per lo street food italiano di alta qualità!

Siamo ossessionati dalla selezione solo dei migliori ingredienti di provenienza locale per preparare e realizzare il nostro cibo.

Il nostro desiderio è quello di far conoscere il miglior street food italiano e regionale in ogni angolo del mondo!

CREMA DI COGNE: la golosità al cucchiaio

Ricetta speciale che vi porterà nel cuore della Valle d’Aosta, in un viaggio memorabile tra cioccolatopannauova e rhum. Si tratta della crema di Cogne, un ricco dessert valdostano davvero semplice e veloce da preparare. E’ uno di quei dolci che nel paese di origine, ogni famiglia, ogni locale, fa a modo proprio, conservando gelosamente il metodo di preparazione.

Si mangia con il cucchiaio e si prepara sempre con affetto per i propri cari. Consistenza deliziosa,  che si scioglie in bocca, lasciando un buon sapore. Bastano pochi ingredienti, di quelli buoni e freschi e una cottura a bagnomaria, facendo attenzione che questa non vada inebollizione. La leggenda racconta che fu un’anziana signora di Cogne, probabilmente intorno al ‘600, a escogitare questa delizia e a tenerla gelosamente per sé. Ciò, per fortuna, non ha mai frenato l’istinto d’imitazione grazie al quale oggi anche noi possiamo preparare e gustare questo irresistibile dessert.

Vino consigliato:

 Il gusto pieno e dolce, caratterizzato dalla presenza di cacao e cioccolato, richiede vini zuccherini dotati di buona alcolicità,come lo Chambave Moscato Passito a 10 C° o il Marsala Fine Rubino Dolce.
Di questa crema esistono delle varianti. Alcune, ad esempio, non prevedono l’utilizzo del rhum. Pare che per rendere migliore la crema si possa utilizzare, insieme alla panna, del latte nel quale sono state fatte bollire mandorle dolci e amare. Per rendere la crema più forte, invece, si può aggiungere anche una tazzina di caffè. La goduria si ha anche accompagnandola con un po’ di panna montata e della frutta secca sbriciolata.

Dolce:

É un tipico dolce al cucchiaio, servito generalmente con i tradizionali biscotti valdostani alle mandorle e nocciole: le tegole. (vedi altro file)
Per ottenere una crema più densa, ideale, ad esempio, per un dolce al bicchiere segui questi passaggi.
Montate i tuorli con lo zucchero e 50 ml di latte. Aggiungete il cioccolato e cuocete senza portare a bollore. Fate raffreddare e mescolate delicatamente con la panna semimontata.
La crema risulterà più densa e potete intervallarla con un crumble di tegole (come in foto).

CRÊPES ALLA VALDOSTANA

Le crêpes alla valdostana prendono questo nome in onore di uno dei due ingredienti principali, la fontina, formaggio tipico della Valle d’Aosta a Denominazione d’Origine Protetta dal profumo di latte, dal sapore dolce e dalla pasta morbida e fondente in bocca.
Il termine fontina compare per la prima volta in un documento del 1270, redatto in lingua latina, per indicare il nome di un appezzamento di terreno.
Il nome viene successivamente utilizzato, a partire dal 1700, per indicare il formaggio in manoscritti, testi, atti pubblici e inventari; secondo alcuni potrebbe derivare dall’alpeggio Fontin ovvero dal villaggio di Fontinaz o ancora dal cognome di una famiglia. Da quel momento entra però nel linguaggio corrente a indicare il noto e inconfondibile formaggio.
In un affresco del castello di Issogne, dimora feudale nella bassa Valle d’Aosta, si trova la più antica testimonianza visiva dell’esistenza della Fontina: nella pittura infatti, risalente alla fine del XV° secolo, è rappresentata una bottega sul cui banco si nota una pila di formaggi praticamente uguali alla Fontina prodotta ancora oggi.

TEGOLE VALDOSTANE

Semplici ma fragranti e deliziose, le tegole valdostane sono uno dei dolci tipici della tradizione culinaria della Valle D’Aosta. Una storia che risale agli inizi degli anni ’30 e i suoi ingredienti genuini le rendono un elemento chiave della cultura gastronomica dolciaria del luogo. Con la diffusione nel territorio nazionale, le tegole valdostane sono ormai conosciute e apprezzate in tutte le regioni italiane, ma restano quel particolare modo goloso di cominciare la giornata a colazione soprattutto ad Aosta e dintorni.

Tegole dolci valdostane: dal 1930 ad oggi

L’origine di questi leggeri biscotti valdostani risale al 1930.
I pasticceri Boch, dopo un loro viaggio nelle terre della Normandia, hanno realizzato le cosiddette tuiles, o tegole, portando con sé la deliziosa ricetta nella piccola regione italiana e facendone un cult della produzione dolciaria attuale. Si tratta di biscotti a cialda dalla tipica forma che assomiglia proprio ad una tegola (da qui il nome di tegole valdostane!). Si preparano utilizzando pochi e semplici ingredienti e sono sottili e molto fragranti. In città e nelle località limitrofe si utilizzano per la prima colazione, ma anche come dessert per accompagnare il caffè o per il momento del break pomeridiano. Che si decida di gustarli inzuppati in una tazza di latte o come snack per fare merenda, le tegole dolci valdostane regalano quell’attimo di dolcezza che rievoca i sapori della terra d’Aosta. 

La ricetta antica aggiunge il suo tocco a questa semplice preparazione. I pasticceri amano dargli quella leggera curvatura usando un mattarello proprio quando i biscotti sono appena usciti dal forno e li servono solo quando sono freddi per assaporare appieno la dolcezza della sua semplicità. Più di recente, è apparsa sul mercato anche la variante di tegola ricoperta di cioccolato. Leggeri e fragranti questi deliziosi biscottini sono ottimi da inzuppare. Perfetti per la colazione, per merenda o come dolcetto da accompagnare al caffè.

I MONDEGHILI

mondeghili, piatto tipico milanese, sono delle polpette, dalla forma schiacciata, preparate con avanzi di carne lessata e pane raffermo, fritte nel burro.

Mondeghili e la sua rara forma al singolare, mondeghilo, sono una delle pochissime parole che oltre centocinquant’anni di dominazione spagnola hannolasciato nel dialetto di Milano.
Il Cherubini nell’opera Dizionario Milanese Italiano, Milano 1839, scrive riguardo ai mondeghili: “specie di polpette fatte con carne frusta, pane, uovo, e simili ingredienti”.
In una Italia dove per tutti una preparazione prevalentemente tondeggiante a base di carne trita, carne sia fresca che di recupero di quanto avanzato a livello di arrosti e di bolliti, è la polpetta, a Milano la stessa parola contraddistingue un involtino di verza ripieno di carne, la Polpett de verz , chiamate comunemente polpette di verza o verzotti, anche se nei tempi più lontani il ripieno poteva essere avvolto in una fettina di carne piuttosto che in una rete di maiale.

Così, quelle che per il Resto d’Italia è la polpetta, per i milanesi è il mondeghilo o, ben più spesso, i mondeghili perché non è uso gustare una singola polpetta.La parola mondeghilo/i arriva a noi dalla Spagna che a sua volta la mutuò dall’arabo, popolo che insegnò a quello spagnolo l’uso di confezionare una sfera di carne trista per poi friggerla. Tutto parte dal termine “al-bundukc” che i castigliani hanno fatto loro con “albondiga” ovvero sia polpetta ancora ai giorni nostri. Da lì noi milanesi avremmo mutuato l’albondeguito e l’albondeghito per arrivare nel tempo a mondeghilo. Oggi giorno è facile che anche a Milano ci si confonda tra polpetta e mondeghilo, con tanti che credono che il mondeghilo sia una speciale versione di una polpetta.

Non sono arrivate a noi ricette seicentesche. Questo perché è frequente la presenza tra gli ingredienti della patata che fino alla metà dell’Ottocento non era una materia prima comune in città. Ricetta di recupero del manzo avanzato, prevede un impasto arricchito con salsiccia, salame crudo o mortadella, possibilmente di fegato, del maiale insomma per dare più sapore.
Quindi pane bagnato nel latte, meglio ancora se mollica, uovo (magari con gli albumi montati a neve), grana padano, aglio o cipolla, noce moscata. I mondeghili vanno infine fritti nel burro rosso, lo stesso che dovrà essere usato per schiumarli una volta disposti nel piatto di portata come un tempo si era soliti fare anche con la Cotoletta. L’uso del burro chiarificato è una modernità come quella di cuocerli in un sugo di pomodoro.

Il mondeghilo è semplicemente mondeghilo per un milanese. Che non lo si chiami polpetta! Mentre infatti in tutto il resto dell’Italia la polpetta è una pallina, più o meno grande, di carne e pane, fritta nell’olio, a Milano la stessa parola designa gli involtini di verza ripieni di carne (le Polpett de verz),i cosiddetti verzotti. 
Quelle che tutti chiamano polpette a Milano sono invece proprio i mondeghili!

Le polpette milanesi, invece, sono tutt’altra cosa. Vengono citate anche da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Nel Capitolo VII, l’oste promette a Renzo

“E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate”. E mentre l’oste “prendeva il tegame delle polpette summentovate, gli s’accostò pian piano quel bravaccio che aveva squadrato il nostro giovine, e gli disse sottovoce: ‘Chi sono que’ galantuomini?’” 

Cosa mangiava Renzo? Manzoni non si riferiva certo alle polpette sferiche, i nostri mondeghili. Ma alle polpette milanesi, più simili a involtini, preparate con carne tritata di maiale e vitello e mescolate con salsiccia tritata, prezzemolo, aglio, grana, pangrattato, uovo, sale e pepe. Il tutto avvolto da foglie di verza bollite. Le polpette vengono poi cotte in un tegame imburrato con vino bianco, acqua brodo e, nella versione più moderna, con pomodori pelati. Tocco finale, una spolverata di grana. 

“E che diavolo vi vien voglia di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt’altro in testa? E con davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto?”

Varianti

Essendo una ricetta popolare, col tempo ha subito delle modifiche e oggi le varianti sono pressoché infinite: la carne può essere arrosto o stufata, se invece si sceglie il bollito, nell’impasto si possono mettere anche le verdure con cui è stato cotto. Si può aggiungere un po’ di cipolla tritata oppure pochissimo aglio ma anche salsiccia, la luganega, mortadella di fegato e Grana Grattugiato. E dopo quella tradizionale, ti lascio anche la ricetta dei mondeghili con le patate.

SCIATT DI TEGLIO: un cuore cremoso della Valtellina

Piccole frittelle di grano saraceno con un ripieno di squisito formaggio, gli Sciatt sono uno dei simboli gastronomici dell’intera zona. Da tempi immemori questi piccoli bignè sono fatti con un mix di farina di grano saraceno e farina bianca, impastati utilizzando la birra, farciti con formaggio, rigorosamente Casera (giovane non stagionato) e cotti nell’olio. Il vero tratto distintivo di questa specie di Gnocco fritto, però, sta nell’aggiunta nell’impasto di una goccia di grappa che gli dona un aroma particolare.

Che ci crediate o no, probabilmente questo delizioso piatto deve il suo nome a una somiglianza bizzarra. Sciatt, infatti, in dialetto valtellinese significa rospo. Probabilmente il nome deriva dal colore ambrato che queste palline assumono dopo la cottura e alla caratteristica forma tondeggiante simile a quella di una rana. Una scuola minore, invece, ritiene che Sciatt derivi dalla sincope dialettale di “sciadatto”, ossia senza forma, che è simile all’italiano sciatto. Sarebbero stati chiamati così per sottolineare la forma irregolare delle frittelle. Altri ancora credono che il nome riproduca lo scioccare che gli Sciatt fanno in bocca quando si mangiano.

Gli Sciatt nascono nel paese di Teglio, in provincia di Sondrio, ma oggi vengono considerati una specialità dell’intera Valtellina. Tra gli ingredienti principali di questo piatto c’è il grano saraceno, un cereale non originario della valle ma coltivato in questi luoghi sin dal 1600. Probabilmente, questo tipo di coltura si deve agli scambi commerciali tra i veneziani e i mercanti orientali. Secondo alcuni, la diffusione del grano saraceno in Valtellina sarebbe ancor precedente e sarebbe frutto delle migrazioni delle popolazioni mongole in Europa.

Fino a qualche decennio fa nelle comunità montane, gli Sciatt venivano serviti a colazione insieme a un bel bicchiere di latte appena munto. Grazie al grande apporto calorico erano un ottimo modo per cominciare la giornata e spesso venivano utilizzati anche come merenda. Oggi vengono serviti principalmente come antipasto insieme a un po’ di cicoria selvatica, condita con olio d’oliva, sale e aceto, e a un tagliere di salumi tipici. Ultimamente, gli Sciatt vengono messi in un cono di carta in modo da poter esser gustati mentre si cammina proprio come il più classico degli street food.

LA FREGOLOTA O SBRISOLONA

La storia della Torta Sbrisolona si intreccia con le vicende della famiglia Gonzaga a Mantova.


L’origine della Sbrisolona è ancora una volta da ricercare nell’antica tradizione contadina. 

Dolce tipico di Mantova ma facilmente reperibile in molte zone del Nord Italia, la Torta Sbrisolona ha una storia molto particolare che affonda le sue radici nel lontano XVI Secolo. Le sue origini sono legate al mondo contadino, tuttavia a nobilitare questa preparazione è stato l’ingresso alla Corte dei Gonzaga, una delle più note famiglie del Rinascimento italiano.

La Torta Sbrisolona deve il suo nome al nome “brìsa”, che in dialetto mantovano significa letteralmente briciola. Chiamata anche sbrisulòna, sbrisolìna o rosegotta in Veneto, si caratterizza proprio per una straordinaria friabilità che porta l’impasto a sbriciolarsi fra le mani formando briciole molto irregolari e di diverse dimensioni.

L’antica ricetta prevedeva l’uso di farina di mais e nocciole, unite allo strutto, ingredienti tipici dell’alimentazione contadina che permettevano di ottenere una preparazione povera ma molto nutriente, ideale per fornire energia a sufficienza anche al mattino per svolgere il lavoro nei campi.

Oltre a essere particolarmente saziante, questa torta poteva essere conservata molto a lungo e la sua notevole diffusione è dovuta principalmente a questo aspetto.

Nonostante i natali contadini, la Torta Sbrisolona è diventata un esempio di pasticceria raffinata alla Corte dei Gonzaga. Dietro questo successo si cela l’intervento di Bartolomeo Stefani, il cuoco ducale che è stato anche autore del testo:

 L’arte di ben cucinare et istruire i men periti in questa lodevole professione”.

Modificando e addolcendo la ricetta di base, in particolare sostituendo le nocciole con le mandorle e arricchendo l’impasto con vaniglia, zucchero e limone, Bartolomeo Stefani catturò l’attenzione dei Gonzaga che iniziarono a considerare il dolce una vera e propria prelibatezza.

Con il tempo, inoltre, il burro ha preso il posto dello strutto, considerato come il grasso di scarto ricavato dalla lavorazione della carne suina decisamente poco adatto alla tavola nobiliare. Alla farina gialla si è poi aggiunta la farina bianca, mentre il lievito continua ancora oggi a essere totalmente assente dalla lista degli ingredienti.

In ogni caso, la ricetta originale non è stata mai snaturata e, soprattutto, non è andata mai persa la peculiare friabilità della Torta Sbrisolona.

Spesso la Torta Sbrisolona viene chiamata anche “torta delle tre tazze”, facendo riferimento al dosaggio dei tre ingredienti principali da usare in parti uguali: zucchero, farina bianca e farina di mais. Questa denominazione appartiene specialmente alla tradizione lombarda.

Sebbene la ricetta originale della Sbrisolona abbia subito alcune modifiche nel tempo, tanto da accontentare anche i palati più raffinati, chi la apprezza cerca sempre di rispettare una tradizione molto antica: spezzare o meglio sbriciolare la torta usando le mani, evitando di tagliarla a fette con il coltello.

Oggi la  Sbrisolona  è inserita fra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali lombardi e il consiglio per gustarla nel pieno del suo sapore è di non mescolarla con creme varie, ma gustarla nella versione più semplice.

Tuttavia per i più golosi la Sbrisolona si trova anche farcita con marmellata, crema di nocciole, gocce di cioccolato, mascarpone o zabaione. Ne esistono poi anche delle versioni salate con ricotta e funghi o con zucchine e speck.

Per quanto riguarda gli abbinamenti invece l’ideale è godersi una fetta di Sbrisolona sorseggiando un vino dolce liquoroso o, ancora meglio, un passito rosso o bianco dei colli mantovani, un bicchiere di Vin Santo o di Malvasia, per esaltarne il sapore!

WEIßWURST: Storia della salsiccia bianca

Una leggenda racconta che abbia avuto origine da un fortunato incidente accaduto a Sepp Moser, oste di una taverna situata proprio sulla piazza dell’orologio. Era il Lunedì delle Rose del 1857 – festività religiosa che ricorre il lunedì precedente al mercoledì delle ceneri – quando Moser terminò le budella di pecora necessarie per preparare i classici Bratwurst di vitello, che i tanti ospiti in sala stavano attendendo. Per affrontare l’emergenza, l’oste decise di usare carne macinata e, invece di arrostire i wurst, pensò di bollirli per mantenerli più morbidi ed evitare che scoppiassero. Il piatto ebbe un tale successo da diventare presto parte della tradizione gastronomica locale.

I Weißwurst non vengono più serviti da una certa ora in poi.

In generale mezzogiorno è la linea di demarcazione, dopo la quale non si mangerebbero più, ma alcuni ristoranti li servono ormai anche fino alle 14. La ragione del consumo mattutino risale ai tempi in cui i sistemi di refrigerazione non erano ancora buoni e la carne fresca non si conservava che per qualche ora. Nonostante ora non ci si scontri più con questo tipo di problematiche il consumo di questi würstel è ancora per lo più limitato alla mattina.

Da qui il proverbio secondo il quale i Weisswürste non devono sentire le campane!

BRETZEL del Trentino

Il bretzel è un saporito pane croccante con un ingrediente caustico di antica origine alsaziana. Tra i simboli gastronomici dei paesi di lingua tedesca e del sud Tirolo, può avere dimensione e diametri diversi.

In varie forme nei vari Paesi del mondo, il bretzel è una delle ricette di street food più popolari e amate, uno degli ingredienti che contribuiscono alla magia dei mercatini di Natale, di cui è considerato protagonista indiscusso. Inoltre viene considerato lo snack perfetto da consumare con un buon boccale di birra, immancabile agli Ocktoberfest.

Nella variante dolce è diffuso nel Granducato di Lussemburgo e, aromatizzato con semi di sesamo o papavero, anche in Romania. Anche le consistenze e i sapori possono essere diversi: più soffice e voluminoso, adatto ad essere farcito come un panino o un bagel americano, o di consistenza più croccante e dalla forma più sottile, anche nella variante aromatizzata con semi di anice o cumino. Ne esiste perfino un tipologia piccolissima, simile a uno snack da consumare come aperitivo.

Se il nome per così dire ufficiale è bretzel, la verità è che esso cambia in base alle regioni e infatti può essere chiamato anche BrezelPretzelPretzlBrezn e Laugenbrezel oppure 
Salatone austriaco come da noi in Alto Adige.

Oggi i bretzel, considerati un vero e proprio cibo tradizionale nei paesi di mezza Europa (Alsazia, Germania, Svizzera settentrionale, Austria e Alto Adige), sono reperibili e venduti in tutti i panifici dove vengono conservati impilati in appositi sostegni di legno a forma di croce.

Considerati un po’ ovunque simbolo di fortuna e prosperità, vengono serviti nei pub o birrerie e perfino nei ristoranti dove generalmente si accompagnano ai classici wurstel, in particolare quelli bianchi bavaresi, ma anche alla senape e alla birra. La variante dolce può essere ricoperta di glassa al cioccolato o di zucchero e ultimamente va diffondendosi anche la versione fritta.

Oltre che nel Vecchio Continente si ritrova come specialità tra gli street food di Philadelphia, Chicago e nel Dely di New York, dove è divenuto popolare col nome di Pretzel più o meno in versione Kosher.

La leggenda vuole sia la merenda più antica del mondo e, in effetti, la consuetudine di mangiarlo risulta già diffusa nel VII secolo d.C.

Forse discendente di un antico pane sacrale, si ritiene che abbia origini molto antiche e perfino illustri. Tuttavia, come spesso accade, ci sono diverse teorie circa la sua nascita del bretzel, molte delle quali riconducibili alla Chiesa cattolica.

Un’immagine del 1190 che raffigura il re persiano Assuero, Ester (personaggio della Bibbia) e una tavola in cui sono visibili i bretzel.

La caratteristica forma che ricorda le mani unite in preghiera e i tre fori, forse simboleggianti la trinità, lasciano intuire un’origine medievale, tanto da spingere alcuni ad avanzare l’ipotesi che il primo bretzel sia stato realizzato per la prima volta nel 610 d.C. dal fornaio dell’Abbazia di San Gallo, ispirato, forse, dai monaci che incrociavano le braccia in attesa che le loro birre fossero pronte.

Secondo il volume The History of Science and Technology di Alexander Hellemus e Bragan Bauch, invece, la ricetta risalirebbe sì al 610 ma ad opera però di un monaco italiano che, per la forma, si sarebbe ispirato alle braccia incrociate che i bambini tenevano durante la preghiera.

Inoltre, si racconta che proprio questi pani sarebbero stati donati ai piccoli fedeli che fossero riusciti a imparare a memoria le preghiere e alcuni passi della Bibbia. Alla luce di questa seconda ipotesi, lo stesso nome bretzel o pretzel potrebbe, dunque, derivare dalla parola latina “petriola” ovvero “piccola ricompensa”.

Un altro riferimento, sempre risalente all’anno 610 d. C., narra che alcuni monaci del Nord Italia avessero l’abitudine di utilizzare una parte della pasta avanzata dall’impasto del pane e di formare con essa dei cordoncini che poi andavano ad intrecciare tra loro così da riprodurre due braccia nell’atto della preghiera, con al centro i tre fori a rappresentare simbolicamente la Trinità.

In qualunque modo siano andate realmente le cose, quel che è certo è che in diversi Paesi europei, già attorno al 1200, il bretzel era considerato tra i cibi base della dieta alimentare tipica del periodo della Quaresima, sia per la semplicità dei suoi ingredienti, sia perché la sua forma ricordava la Trinità.

La leggenda del fornaio alsaziano Dorebäck

Un racconto popolare più tardo rispetto alle leggende pocanzi riportate, ne situerebbe la nascita intorno al 1477 e ne collocherebbe il luogo di origine nel villaggio di Ingwiller in Alsazia, opera di un fornaio di nome Dorebäck che, secondo alcuni, si sarebbe reso colpevole di un piccolo furto e secondo altri avrebbe avuto più semplicemente l’ardire di sparlare di una donna molto potente, amante del signore locale, il conte Jacques de Lichtenberg, detto Jacques il Barbuto.

Se, tuttavia non è dato di sapere cosa realmente accadde, le fonti concordano nell’affermare che lo sfortunato fornaio, dopo essere tratto in arresto e rinchiuso in una cella del castello, fu condannato all’impiccagione. Passarono i mesi, finché un giorno gli giunse voce che il conte sarebbe stato disposto a concedergli la grazia sebbene solo ad una apparentemente irrealizzabile condizione: creare un pane attraverso il quale il sole avrebbe dovuto splendere tre volte. Ancora una volta ecco che il racconto si fa nebuloso per il sovrapporsi di più versioni della leggenda.

Secondo alcuni il fornaio, oramai disperato, pare avesse trovato la soluzione osservando la moglie pregare a braccia incrociate. Prese perciò la pasta, la allungò e ne fece dapprima un cerchio per poi incrociarne le estremità così da ottenere tre fori. Un’altra versione, invece, vuole che il lamento del fornaio fosse udito da un compaesano di nome Jorg, un gigante buono e dalla forza straordinaria che il conte aveva fatto chiamare come sua guardia del corpo. Si racconta che proprio Jorg, mosso a compassione, raggiunse il fornaio nella sua cella e ne divelse una delle sbarre attorcigliando ciascuna estremità su se stessa. Fu così che Dorebäck ebbe la grande e felice intuizione che gli garantì la grazia. Si fece condurre nelle cucine della prigione e lì confezionò il pane richiesto dal conte, che successivamente distribuì a tutti i compaesani accorsi per festeggiare la ritrovata libertà. È probabile che proprio da questo momento il bretzel iniziò ad essere considerato un pane beneaugurante, religioso e porta fortuna, come del resto è ancora riportato in alcuni libri di ricette.

Esiste, infine, anche una versione italiana sull’origine del celebre pane. A Colmar, ancora oggi, infatti, si racconta che esso sia stato realizzato per la prima volta da un fornaio italiano nativo di Brescello, nella Bassa Reggina, il quale trasferitosi in Alsazia dopo la Guerra dei 30 anni, volle onorare il proprio paese di origine attraverso questo pane. In dialetto, Brescello si tradurrebbe come Bresél e di qui il nome bretzel.

Adottato in seguito dalle comunità monastiche, si ritiene che l’origine etimologica di bretzel sia da rintracciarsi nel nome latino “Brachius” o “Bracellus”, per il fatto di ricordare nella forma un abbraccio, ma anche per l’abitudine di trasportare il pane appendendolo al braccio con una cordicella. Esistono, inoltre, altre testimonianze secondo cui il nome significherebbe “tempo di riposo”, quello trascorso in altre parole a braccia conserte, incrociate sul grembo.

Per quanto, invece, riguarda il colore, anch’esso sarebbe il risultato del caso e a tal proposito esistono ancora una volta più versioni della medesima leggenda.

Una racconta che il gatto di un fornaio, spaventato dal calore, avesse lasciato cadere dei pani dentro un secchio pieno di salamoia. Troppo tardi per iniziare un nuovo impasto, i bretzel furono perciò infornati in questo modo. C’è, invece, chi propenderebbe per un errore di cottura del pane, da parte di un fornaio che si sarebbe addormentato davanti al forno.

Nel corso del tempo naturalmente il bretzel da semplice ricetta pasquale e quaresimale è andato via via arricchendosi di altri sapori e nuovi ingredienti come le uova, il burro e il formaggio per comparire sempre più frequentemente sulle tavole.

Oggi è facile trovare bretzel morbidi o secchi, grandi o piccoli, intrecciati o dalla forma allungata, con un impasto di farina bianca o anche integrale con l’aggiunta di lievito madre.

Li possiamo gustare da soli o farciti come fossero un sandwich, tagliati a metà e imbottiti con formaggio e speck, ricoperti da ulteriore formaggio, aromatizzati con cipolla, peperoncino o altre spezie o glassati con il cioccolato.

Se la ricetta del pane originale si basa sull’uso di lievito, farina, burro, acqua e sale, esistono svariati modi di usare questo pane, o meglio il suo impasto, in cucina, sia per le ricette dolci che salate.

Fra le tante vale la pena citare la ricetta dei piccoli pani svizzeri conosciuta come Pains de sils o Breads of sils, realizzata proprio partendo da una base che è quella del popolare impasto, esattamente come i Laugengebäck, le celebri pagnottelle di origine tedesca.

I bretzel dolci costituiscono sicuramente un’ottima alternativa a quelli salati. Per prepararli basterà seguire la ricetta dell’impasto originale, sostituendo il sale con lo zucchero e aggiungendo altri ingredienti dolci per guarnirli o arricchirne il sapore, come per esempio lo zucchero a velo che viene spolverato sulla superficie o la granella di nocciole o ancora il miele o lo sciroppo d’acero.

Attualmente il bretzel oltre a potersi considerare una tradizione consolidata in Europa, e conosciuto in particolare per la sua origine teutonica, è presente e molto diffuso negli Stati Uniti, dove è in voga anche nella versione burger.

Si racconta che la ricetta giunse nel 1620 con la Mayflower, la nave che trasportava pellegrini dall’Europa mentre, secondo altri, essa sbarcò al seguito degli immigrati tedeschi nel lontano 1710, al loro arrivo in Pennsylvania.

Il successo del bretzel, qui ribattezzati “pretzel”, fu ben presto inevitabile con le strade di New York, Chicago e Philadelphia che presero a pullulare di venditori ambulanti di pretzel tanto da indurre il governatore della Pennsylvania Ed Rendell a istituire una giornata dedicata al famoso pane, il 26 aprile, come riconoscimento ufficiale per un prodotto così importante anche per la storia e l’economia dello stato americano.

Proprio in Pennsylvania si registra tuttora un consumo di questo pane ben dodici volte superiore alla media nazionale, tanto che in passato gli è stato perfino dedicato un museo, in seguito chiuso.

Sempre in Pennsylvania, inoltre, non ci si è semplicemente limitati a recepire una tradizione ma si è giunti, forse casualmente, a personalizzarla ulteriormente. In questo stato, si dice, infatti, che sarebbero nati i bratzel secchi, più sottili e croccanti.

La leggenda vuole abbiano fatto la loro comparsa intorno al 1861 per “colpa” del panettiere Julius Sturgis che a Litiz, paese poco distante da Philadelphia, aprì il primo panificio interamente dedicato al pretzel. Un giorno, forse vinto dalla stanchezza, si addormentò improvvisamente dopo aver infornato i pani. Una volta sveglio e convinto che il pane non fosse ancora pronto, dato che il fuoco nel frattempo si era spento, gli diede una seconda cottura, indurendoli. In un primo momento il fornaio andò su tutte le furie, ma dopo aver assaggiato i suoi pretzel si accorse che il risultato non era poi così male: la consistenza e il sapore risultavano ottimi e sicuramente i suoi pani si sarebbero mantenuti perfino più a lungo di quelli morbidi classici.
Quanto avvenne, dunque, dovette rivelarsi interessante anche dal punto di vista commerciale e questa variante infatti, proprio poiché si prestava ad essere conservata più a lungo divenne ben presto più apprezzata di quella morbida originale.
Negli Stati Uniti, dove diversi e a volte molto discutibili sono per noi italiani gli stili di pizza, si è soliti utilizzare il bretzel, come base per una pizza che parrebbe in parte ricordare la più nota margherita. La ricetta prevede che la superficie del pane venga ricoperta di pomodoro e mozzarella prima di essere cotta in forno affinché il formaggio si sciolga e il pane risulti croccante.
Sempre negli Stati Uniti non è raro neppure che il bretzel diventi uno spuntino sostanzioso nella versione allungata ad hot dog e arricchito di mostarda o salsa piccante. Oggi diffusissimi in tutto il continente americano, soprattutto nella versione croccante anche all’interno sono venduti come street food a bordo dei caratteristici furgoncini, insieme a hot dog, kebab, tacos e altri cibi da strada anche internazionali.
Il processo di panificazione dei bretzel, secondo la procedura tradizionale, si chiama Laugenbäck, termine tedesco che indica il tipo di cottura del pane che, prima di essere infornato, viene immerso per qualche secondo in una soluzione bollente di acqua e soda caustica.
La tipica glassatura dei bretzel si ottiene, infatti, grazie a una soluzione alcalina a base di sale grosso che prevede l’uso della soda caustica, o tutt’al più del bicarbonato, procedimento questo indispensabile per la riuscita della crosticina marrone, croccante, lucida e leggermente salata di questi pani. Proprio la soda, che in cottura perde la sua pericolosità, conferirebbe il particolare colore scuro e lucido che li caratterizza grazie alla cosiddetta reazione di Maillard.

 

VARIANTI

  • Brezel al formaggio
  • Ai semi di cumino o di papavero
  • Con glassatura di cioccolato
  • Spolverati di zucchero e granella di nocciole.

STRUDEL del Trentino

Lo strudel, tra i migliori dolci italiani, è il goloso ripieno di mele e uvetta che viene associato al Trentino Alto Adige e all’Austria. La sua storia però è lunga e particolare e ha un’origine molto lontana, riportandoci indietro fino alla Mesopotamia.

Sembra che un dolce simile si facesse tra gli Assiri fin dall’VIII secolo a.C. ed in Grecia fin dal III secolo a.C.

Potremmo paragonare la storia dello strudel a un lungo viaggio intercontinentale. La sua diffusione in Europa, infatti, è frutto di numerosi scambi commerciali e contaminazioni culinarie. Le primissime testimonianze relative al dolce sono state rinvenute in alcuni documenti di origine asiatica: un manoscritto assiro dell’VIII secolo a.C., ad esempio, riporta la descrizione di un fine pasto composto da strati di sfoglia o pane azzimo, noci e miele; abbinamento, questo, che avrebbe poi riscosso grande successo negli altri regni mesopotamici durante i secoli successivi. Fu grazie alla Via della Seta che il dessert giunse in Grecia (nel III secolo a.C.) e poi in Turchia, dove ispirò la nascita di due ricette: il güllaç (una sfoglia leggera a base di amido di mais arricchita con latte, semi di melograno, noci e acqua di rose, che oggi si consuma soprattutto durante il Ramadan) e la baklava (dove la pasta fillo, spalmata di burro e imbevuta in uno sciroppo di limone, miele e spezie varie, avvolge un goloso ripieno di frutta secca).

Nel 1526, con l’espansione territoriale condotta dal sultano Solimano Il Magnifico, questo capolavoro di stratificazione fece il suo ingresso anche in Ungheria, che per quasi 200 anni sarebbe rimasta sotto il dominio dell’Impero Ottomano. Qui, probabilmente, i pasticceri iniziarono ad aggiungere le mele e a sostituire le noci con i pinoli; da quel momento in poi la ricetta base subì diverse trasformazioni, ma il VI secolo segnò uno spartiacque fra l’impiego della pasta fillo turca – con acqua e farina, senza aggiunta di grassi – e la nascita della “pasta matta” oggi ampiamente diffusa in ambito europeo, che deve all’olio la sua consistenza maggiormente friabile.

Più di un secolo dopo, con la conquista dell’Ungheria da parte dell’Austria nel 1699, il dessert iniziò a essere apprezzato all’interno dei salotti aristocratici viennesi; fu così che questo fine pasto “popolare” divenne una pietanza nobile, e le materie prime già impiegate si arricchirono con l’aggiunta dell’uvetta macerata nel liquore. Il primo testo dettagliato sul procedimento per prepararlo risale al 1827 e compare sul Grande libro di cucina viennese di Anna Dorn, che lo chiama con il nome di Apfelstrudel (letteralmente “vortice di mele”: un’espressione che rende bene l’idea!).

Con la dominazione austriaca nel nostro paese lo strudel di mele ha conquistato anche la pasticceria altoatesina, friulana e veneta, diventando uno dei dolci più amati dell’Italia settentrionale (e non solo!). Sul ripieno pochi dubbi: l’impasto viene farcito quasi sempre con mele – fra le più adatte allo scopo troviamo le Golden Delicious della Val di Non, dal retrogusto piacevolmente zuccherino, e le Renette, sode e con una punta acidula, nei mesi invernali – uvetta ammorbidita nel rum, noci o pinoli, cannella, zucchero e limone. Non di rado, per dare un twist in più all’insieme, si inserisce anche del pangrattato.

E l’involucro? Le alternative sono tre: pasta sfoglia, pasta frolla o pasta matta. La prima è composta da acqua, farina e burro e rappresenta un buon compromesso in termini di gusto e spessore; la seconda, più sostanziosa per l’aggiunta di uova, sigilla il contenuto con un guscio rigido e compatto; la terza risulta particolarmente fine e leggera grazie all’impiego di pochissime materie prime: acqua, olio e farina. La scelta dipende dal risultato che si vuole ottenere; la pasta matta, senza dubbio, ha il pregio di valorizzare il sapore dei singoli ingredienti, mentre la frolla rende il dessert più strutturato e dolce.

Secondo la cultura popolare, la giusta consistenza della sfoglia sarebbe quella che consente di leggervi in trasparenza una lettera d’amore infilata al suo interno

I GÒFFRE O GOFRI DELL’ALTA VAL DI SUSA

La storia del gofri (dalla tesi di Brunetto) I ferri a gaufres devono la loro origine ai ferri a ostie (ferum charaderatum, ferrum mablatorum, ablateisen, afleteisen) di cui si serviva la chiesa per la confezione delle ostie (oblata – oflete).

La forma schiacciata del pane consacrato cominciò ad apparire in Oriente alla fine del quarto secolo. S. Epifanio, morto nel 403 d.C., fu il primo a fare degli accenni su questo tipo di pane rotondo “Hoc est enim rotundae formae”. Anche in Occidente le oblate, dopo il quinto secolo, assunsero la forma arrotondata, ma di diametro superiore e di spessore notevolmente maggiore di quelli odierne. Il più antico stampo di pietra fu trovato a Cartagine ed è risalente al sesto secolo. A partire dall’undicesimo secolo si utilizzò d’abitudine un’ostia più grande destinata al sacerdote e una più piccola per i fedeli; la produzione avveniva nei monasteri ed era riservata agli uomini. Verso l’inizio del secolo dodicesimo diminuirono la dimensione dei pani e si formarono simultaneamente più ostie, sovente grandi e piccole. All’inizio le ostie avevano un diametro di 14 cm per poi scendere a 9 e 8 cm. Il più antico ferro da ostie datato che si conosca in Italia risale al 1132 ed è conservato al museo del vino di Forgiano (Pe). La decorazione degli stampi per ostie aveva come temi principali l’Agnello Pasquale, la flagellazione, la crocifissione ed i monogrammi IHS e IHC, completati a volte da XPS.

Le ostie non consacrate venivano offerte durante i pellegrinaggi o nei giubilei; distribuite alle porte delle chiese permettevano ai fedeli di sostentarsi fino all’ora dei pasti. Non considerate un alimento, potevano dare senso di sazietà senza nutrire, quindi il loro consumo non violava i precetti della Chiesa ed erano un risparmio per il pellegrino che le riceveva gratuitamente. A partire dal quindicesimo secolo la produzione passò anche in mano ai laici e con il tempo i simboli sui ferri assunsero, oltre al simbolo della sacralità, la funzione profana di contraddistinguere un casato o una proprietà.

Il Rinascimento fu il periodo della “cialda personalizzata”, quindi i ferri portavano incisi con gli stemmi araldici, i nomi dei proprietari e talvolta quelli dell’incisore. A partire da questo momento iniziò la produzione di ferri di grande pregio artistico usati per la produzione di dolci da consumarsi in occasioni speciali, in Umbria i nobili ed i vescovi fecero decorare i loro ferri da orafi e zecchieri, in Spagna i ferri entrarono nei beni inventariati delle diocesi mentre in Francia non mancarono nelle liste di nozze delle famiglie borghesi facoltose.

A partire da fine settecento i ferri iniziarono a cambiare nel materiale (dal ferro dolce si passò alla ghisa), nello spessore e nella tecnica di realizzazione del decoro (dal bulino allo stampo); diventarono sempre più rari i simboli ed i motivi geometrici e man mano vennero ad assomigliare sempre di più ai quadretti. Resto’ nel tempo immutata la tradizione di cuocere tra due piastre un composto a base di farina e acqua nelle ricette più semplici, con l’aggiunta di uova, zucchero, aromi naturali, panna, birra nelle ricette più elaborate.

Le cialde arrivarono fino ai giorni nostri prodotte con nomi diversi. La tradizione rimane viva in mote regioni d’Europa. I ferri per goufres della media e alta Val Chisone, simili ai ferri prodotti da metà ottocento in poi nelle fonderie francesi e belghe, giunsero quasi sicuramente attraverso i contatti che gli abitanti delle vallate ebbero con le genti d’Oltralpe per flussi migratori o religiosi.

I ferri, denominati in val Chisone in grafia dell’Escolo dou Po goufrìe o goufriè, furono dapprima importati dalla vicina Francia o dalla Svizzera e poi prodotti da alcuni fabbri della zona. Nelle piccole frazioni di montagna dove era più difficile raggiungere il forno del pane i gofri venivano fatti una volta la settimana per alternarli al pane, mentre nei periodi di maggior ristrettezze economiche sostituivano non solo il pane, ma anche la pietanza. Si consumavano anche con i ciccioli (lu grisilhoun) quando si ammazzava il maiale. L’attività di fare i gofri è presente come memoria orale nei racconti di molti anziani, i quali ricordano che “…di buon ora nei giorni di festa le donne preparavano la pasta composta di acqua, farina, sale e lievito (quello usato per fare il pane); lasciavano poi lievitare il tutto in un ambiente tiepido fino al pomeriggio quando venivano accesi i fuochi, e messe a scaldare le padelle.

Quando le piastre erano calde si ingrassavano con del lardo o con olio di semi di noci. Si prendeva con un mestolo la pastella, si versava al centro e velocemente si richiudeva, si girava poi il ferro per due o tre minuti. All’apertura, se il gofre si staccava senza alcuna resistenza significava che era cotto a sufficienza, altrimenti si proseguiva la cottura per alcuni minuti”. Dimenticati negli anni ’70 e ’80 per lasciare il posto a prodotti più sofisticati, sono stati fortunatamente da qualche anno riscoperti durante le feste religiose e civili in bassa come in alta val Chisone.

I gofri rappresentano il tradizionale street food delle montagne della Val di Chisone e, in parte, della Val di Susa, ma la loro somministrazione è tipicamente itinerante, anche se da un po’ di tempo in qua, qualche bar della valle si è attrezzato per prepararli e servirli su richiesta.

Il termine occitano gofri suona in modo simile alla parola francese gaufre, da cui in italiano sono derivati i termini goffraregoffratura,
goffrato per identificare certe superfici con piccole cavità a nido d’ape, quadrettate o romboidali. Oltre che nell’arte bianca, questi termini sono molto usati anche nel comparto del tessile e dell’industria cartaria, per definire quelle superfici trattate con lavorazioni particolari, in modo da presentare voluti avvallamenti nei tessuti o nella carta. Dunque, e nella fattispecie, i gofri  sono delle cialde “goffrate”, le cui origini sono pluricentenarie, prodotte essenzialmente con tre semplicissimi ingredienti base: acqua di montagna, farina di frumento e lievito madre; la loro forma è variabile, quadrata o circolare, a volte a spicchio, a seconda dello stampo, ma ciò che ne caratterizza l’aspetto è la tipica “goffratura” a nido d’ape su tutta la superficie 

Insomma, una sorta di pane grigliato (ma non chiamateli toast!), scaldato sul momento su una graticola appoggiata sul fuoco a legna, su cui si posa lo strumento tipico e indispensabile per produrre i gofri: una sorta di “pinza”, le cui due estremità sono rappresentate da due piastre di ferro, ma più frequentemente di ghisa, la cui superficie però non è liscia, ma caratterizzata da piccoli incavi a quadretti o a rombi. Trattandosi sostanzialmente di un particolarissimo tipo di pane tostato, ed avendo un sapore neutro, i gofri si adattano molto bene sia ai companatici dolci che a quelli salati.

Ma i gofri vengono tradizionalmente farciti soprattutto con prosciutto e formaggio di valle, per quanto, da molto tempo ormai, vengano proposti anche nella variante dolce, con ricche farciture di miele degli apicultori locali, sciroppo d’acero, marmellata o cioccolata spalmabile. Un cugino primo dei nostri gofri, sono i waffles d’Oltralpe, detti anche gaufres. La differenza fondamentale tra i gofri delle nostre montagne e i gaufres francesi, sta soprattutto nello spessore della cialda: i gofri piemontesi sono più sottili, e quindi, più croccanti dopo la cottura.

waffles sono prodotti anche in altre località della Francia, del Belgio e del Nord Europa. Nella variante nord europea, i waffles sono dei dolci a tutti gli effetti, visto che contengono anche zucchero, latte, burro, uova e vaniglia. I gofri delle Alpi Cozie sono decisamente più semplici, meno sofisticati, dal momento che erano consumati dalle popolazioni montanare come sostituto del pane.

Oggi, i gofri rappresentano davvero una ghiotta chance per un insolita e nutriente colazione, oppure per un pranzo veloce, o per una gustosa merenda tipica delle valli torinesi: un piccolo scrigno di genuinità e di bontà nel rispetto delle antiche tradizioni montanare. Sempre che si transiti da quelle parti al momento giusto e, avvistato il banco di vendita, ci si fermi senza indugio, perché non è detto che sia poi possibile trovare lungo la strada che sale al Sestriere un successivo banchetto con l’insegna “Io mangio gofri”.

VARIANTI:

  • gofri farciti

  • gofri con il miele

CAJETTES: la ricetta dell’antico piatto piemontese tipico dell’alta val di Susa

Un antico piatto della gastronomia occitana, fatto con prodotti di riciclo come il pane raffermo, oggi sostituito dalle patate: oggi parliamo delle cajettes, degli gnocchi semplici e golosi, il cui sapore ricorda quello delle mani delle nonne che impastano per i nipoti.

Ci troviamo in Val Chisone, una valle alpina situata nella Città metropolitana di Torino (Piemonte) che si incunea nelle Alpi Cozie, per conoscere le famose cajettes: un formato di pasta particolare, a metà fra gnocchi e quenelles, in origine realizzato col pane raffermo, ma che oggi viene spesso preparato con le patate. Questo piatto tipico, legato fondamentalmente alla cultura occitana, ha una storia difficile da percorrere ma sembra che siano tutti d’accordo nel dire che sia nato a Rochemolles, frazione di Bardonecchia: ancora oggi viene cucinato nelle valli valdesi e occitane.

Le cajettes (in italiano cagliette e piemontese calhëtte) sono degli iconici gnocchi cotti nel brodo e conditi con burro e salvia. La ricetta è tramandata di generazione in generazione, e ogni casa custodisce le proprie dosi e i propri ingredienti: anche perché, essendo un piatto fondamentalmente anti-spreco, ognuno le cucinava con quello che aveva.

Le cajettes sono state recentemente protagoniste di un festival a loro dedicato. È arrivato alla terza edizione e si svolge a Claviere – paesino fra la Francia e l’Italia – nel mese di luglio. Inutile dire il grande successo perché, dove la tradizione parla, il pubblico apprezza.

La cucina alpina, soprattutto in Piemonte, si fonda sui ingredienti poveri e di sostanza, che hanno dato vita, con gli anni, a un patrimonio gastronomico inestimabile; una sorta di compromesso per sopperire alle fredde e faticose giornate passate a varcare le bianche piste ricoperte di neve. La ricetta originale delle cajettes, risalente all’Ottocento, vede il pane raffermo come protagonista indiscusso di questo primo piatto gustoso, cosa che col tempo si è evoluta all’uso delle patate. Non a caso, questo splendido tubero è un ingrediente base della cucina povera di montagna.

Le cajettes sono un piatto capace di evocare sensazioni forti e confortevoli, riportando alla mente del fortunato assaggiatore una familiarità infantile piena d’amore: è così bello chiudere gli occhi e immaginare l’energica nonna alle prese con sua gratüsa d’ la cajetta in ferro battuto che grattugia pazientemente le gialle patate o del pane, per poi mescolarle agli avanzi del giorno precedente creando un piatto ricco di gioia, in onore di ospiti e affamati nipoti.

MIACCE PIEMONTESI

Stiamo parlando Le miacce della Valsesia e delle miasse del Canavese, due pietanze molto simili derivanti da un’antica pietanza dei Walser e che entrano a far parte del nostro viaggio tra le pizze e le focacce d’Italia.

Walser: 

un’antica e misteriosa popolazione di lingua tedesca originaria dell’alto Vallese, in Svizzera, che improvvisamente, tra il XII e il XIII secolo, migrò verso Sud. Molti si insediarono nella zona di Gressoney in Valle d’Aosta, altri verso il Canton Grigioni e l’Austria. In Italia esistono degli insediamenti walser anche in Piemonte, in Val Formazza e in Valsesia, fin quasi al Lago d’Orta. Antiche case walser si trovano perfino in Lombardia, nei pressi di Madesimo. Il motivo di questa migrazione resta ancora sconosciuto. Tuttavia l’ipotesi più probabile è che, a quell’epoca, il miglioramento delle condizioni economiche dopo l’anno mille abbia determinato il sovrappopolamento di tutto l’alto Vallese. I Walser, quindi, per trovare nuovi pascoli si decisero a valicare le Alpi, favoriti da due fattori: innanzitutto un momentaneo surriscaldamento del clima in epoca medievale, che rese più agevole il passaggio dei valichi alpini. A un Medioevo caldo, però, seguì la “piccola glaciazione”, un generale irrigidimento del clima che dal ‘500 durò fino alla metà del XIX secolo e che “intrappolò” i Walser nelle loro nuove terre. In secondo luogo, alla migrazione contribuirono gli incentivi dei signori feudali e dei monasteri italiani, che concessero terre e benefici fiscali per colonizzare territori incolti e spopolati.

Ebbene, oltre ai costumi pittoreschi e alle graziose costruzioni in legno, tra le eredità dei Walser ci sono anche i discendenti di questo loro antico sostituto del pane (miljntscha), che ha la caratteristica di non essere cotto al forno, bensì su piastre di ferro messe direttamente sul fuoco.

Proprio come le odierne miasse, miacce e runditt. Come abbiamo visto, per questi ultimi l’impasto è costituito da un mix di farina di frumento e di grano saraceno. In Valsesia le miacce invece generalmente si preparano con la sola farina bianca, oltre a latte, uova, panna o olio, acqua e sale. Tutti gli ingredienti vengono mescolati e poi, con un mestolo, il composto viene adagiato sulle piastre roventi – dette, appunto, “ferri da miasse”, poggiate su appositi “alari da miasse” – unte con un po’ di lardo. Questa è la versione classica, da ripiegare in due o in quattro e farcire con pancetta (ma anche prosciutto o salame locale) e formaggio (come la toma) o burro. Ma ci sono anche altre due varianti: i tini, secchi e croccanti, fatti solo con farina, latte e sale; oppure le miacce dolci, farcite con panna, zucchero, miele, cacao, crema di nocciole e cacao o marmellata. Anticamente le piastre erano di pietra, solo in seguito le famiglie nobili cominciarono a usare il ferro, spesso dotandole anche del loro simbolo araldico in maniera non dissimile da quanto avveniva per le crescentine modenesi.

Le miasse del Canavese e del Biellese, diffuse anche nella vallata walser di Gressoney (Aosta) e con “epicentro” a Quincinetto (Torino), vengono invece prodotte utilizzando, come base, la farina di mais. In origine erano semplicemente dei composti di farina bianca e gialla e sale, insaporite dal lardo che ungeva le piastre, molto simili a quelle delle miasce della Valsesia. Solo successivamente è arrivata l’aggiunta del latte, delle uova, del burro e dell’olio. Si consumano accompagnate dai locali formaggi: generalmente dal salignun, con il suo sapore speziato e reso piccante dal peperoncino; ma anche il mörtrett, preparazione ottenuta da pezzi di toma e ricotta fermentati, che si rompe a scaglie. Si mangiano anche con dei teutonici crauti o, anche in questo caso, nella variante dolce.

Per runditt, miacce e miasse – il primo documento che parla di “stiacciatine di farina fatte abbrustolire con un ferro caldo” risale al 1488 – l’ingrediente principale un tempo doveva essere il “migliaccio”, voce cinquecentesca che potrebbe indicare il miglio, da cui potrebbe arrivare il termine “miaccia”. Solo in seguito si sarebbe aggiunto il grano saraceno, giunto in Italia già alla fine del Medioevo, e il granturco, arrivato nel Seicento. Solo a partire dell’Ottocento si è progressivamente affermata la più “ricca” farina di frumento.

CICCHETTI E SPUNCIOTTI VENETI

I cicchetti veneti rappresentano in un certo senso il cibo da strada più antico del mondo.

I cicchetti veneti possono essere definiti come dei piccoli bocconcini, degli assaggi da gustare in varie forme con una base di pane ricoperto da carne, pesce, verdure magari pastellate, mozzarella. Estesi in tutta la regione e conosciuti a livello internazionale, restano un simbolo della città di Venezia.

Il nome deriva dal latino ciccus ovvero piccola quantità ma non evoca solo cibo. Un cicchetto è infatti un piccolo antipastino, un finger food, accompagnato da “un’ombra” (bicchiere) di buon vino o prosecco.

Chiamati anche “spunciotti” i cicchetti raccontano la storia del Veneto e in particolare della Serenissima. A Venezia infatti era consuetudine tra i mercanti e commercianti sistemarsi al fresco, riparati dall’ombra del campanile di San Marco.

Qui il vino era quindi pronto da gustare insieme a un pezzo di pane guarnito con pesce (sarde in saor o baccalà) verdure o mozzarella. I mercanti erano per definizione viaggiatori, conviviali e sempre pronti a vivere la città appieno.

Pare che il rito di metà mattina dello spuntino e al momento della conclusione degli affari nel tardo pomeriggio fosse immancabile. L’espressione veneta “andar per ombre” sembra legata proprio a questi particolari momenti.

La tradizione dei cicchetti veneti è legata a quella dei bacari, tipici locali veneziani dove si gustano questi antipastini, seguiti da altri piatti, innaffiati da del buon vino.

I bacari in origine erano i vinai che si sistemavano in piazza San Marco con i loro barili. Queste osteria da strada poi hanno preso forma in piccoli locali al chiuso che conservano ancora spesso l’arredamento con botti in legno.

Si differenziano dalle osterie perché hanno pochi posti a sedere e sono molto intime e accoglienti, propongono questi bocconcini da mangiare senza posate e il rapporto qualità prezzo è molto buono.

I bacari di Venezia sono molto famosi e si organizzano anche tour tematici per scoprire questi luoghi di ritrovo che parlano attraverso il cibo e la tradizione della storia veneta e in particolare della Serenissima.

Se volessimo dire quanti cicchetti ci sono dovremmo dire un numero infinito! I cicchetti vedono la sua espressione più classica a Venezia con il pane, la cipolla e le sarde in saor (sarde insaporite appunto dalla cipolla a fette e salata), ma sono moltissime le ricette che si preparano qui, a Padova e in tutto il Veneto.

Cicchetti mezzo uovo e acciuga, un altro classico della tradizione culinaria veneta.

Cicchetti a base di pesce: sarde, pesce azzurro, baccalà mantecato, folpetti (anche detti moscardini, piccoli polipetti bolliti)

Cicchetti a base di verdure, che possono essere accompagnate da salse, fritte o pastellate.

Cicchetti a base di carne, polpetta con mix di uova formaggio e carne macinata

Cicchetti a base di mozzarella in carrozza, filante e calda con ripieno croccante.

E chi più ha fantasia più gusti…

Nella zona di Padova i cicchetti vengono chiamati Spuncioni. Il termine deriva da spunciare, come pizzicare con uno stuzzicadenti senza l’uso di forchetta e da qui la creazione di questi deliziosi assaggi. Anche qui la creatività spazia nei gusti e negli abbinamenti passando sempre per i grandi classici come la fortaja, una frittata con il salame.

Come abbiamo detto la condizione per cui tu stia veramente gustando un cicchetto è la presenza di un buon bicchiere di accompagnamento.

Il prosecco è sempre il primo in lista e vince per essere il più versatile. Gli esperti dicono che si dovrebbe scegliere il cicchetto in funzione del vino. Non vogliamo togliere il mestiere ai sommelier e non ci permetteremo mai ma ecco alcune semplici indicazioni di abbinamento:

Con pesce o pollo si abbina bene un prosecco o un bianco secco leggermente frizzante. Con prosciutto crudo rosato leggero e con salumi un rosato fresco o rosso giovane. Con verdurine sicuramente un bianco morbido.

Cicchetto coincide con l’ora dell’aperitivo quando ci si incontra con gli amici dopo il lavoro o prima di gustare una cena in convivialità nel weekend o in vacanza. In inglese si chiama “happy hour” che vuol dire ora felice! Bisogna dire che come definizione è perfetta.

Se ti capita quindi di passare dei momenti in Veneto o una breve vacanza prova la tradizione dei cicchetti per capire meglio la storia di questi luoghi e dell’Italia.

Allora vediamo le nostre 7 proposte, venete, venetissime di cicchetti :

1. Crostino al baccalà


In cima alla lista c’è il crostino con il baccalà mantecato, sempre buono e spumoso.

2. Soppressa trevigiana


La soppressa si accompagna perfettamente al vino rosso, se poi la si accompagna con un po’ di polenta e funghetti, non si può certo dirle di no. 

3. Polenta e gorgonzola


Perché la polenta fa sicuramente parte della nostra cultura a tavola, vogliamo non fonderci un
pochino di gorgonzola?

4. Il fritto misto


Che sia servito dentro il classico foglio di carta assorbente arrotolato o su un piattino, lo “scartosso” accompagna le bollicine di prosecco in un binomio perfetto.

5. Patè di fegato


Un cibo povero, realizzato con le interiora del pollo, sopra una bruschetta appena uscita dal forno e ben aromatizzato si accompagna con i vini marsalati, o con un retrogusto dolce.

6. Le polpette


Siano esse di tonno, carne o di verdure,sono presenti in ogni vero bacaro veneto, il più delle volte fritte, ma qualche volta si trova anche la versione “della nonna” con il sugo.

7. Il tramezzino


Dicono che le sue origini siano piemontesi, ma noi non ci crediamo. Il tramezzino triangolare, in mille gusti, ripieno fino a scoppiare e grondante maionese è il  cicchetto tipico di ogni veneto.

PINZA VENETA

La notte della vigilia dell’Epifania in Veneto è la notte di fuochi o meglio conosciuta come la notte del “Panevin”. Secondo la tradizione, vengono preparate delle cataste di rovi, di rami e di canne di granoturco attorno ad un palo di sostegno per innalzare un alto rogo.

Viene messo a fuoco alla sera, dal più giovane della casa, con un pezzo del “soco” di legno mezzo bruciato, tenuto in serbo dalla notte di Natale. L’accensione del “Panevin” avviene con la presenza di tutta la gente della borgata.

Questo rituale ha un significato simbolico legato al culto del sole e del fuoco delle civiltà precristiane: il rito è come un esorcismo contro il timore degli uomini di perdere, durante il solstizio invernale, il sole e le forze generatrici, della fertilità della terra. 

 Il fuoco, con il suo calore, invita le famiglie a stare insieme per il gelo della stagione. La fiamma, se ben alimentata, può vivere in eterno.

Grazie al “Panevin” si scopre il pronostico sull’annata appena iniziata: se le faville andranno verso il tramonto sarà segno buono, se andrà verso levante sarà tristo. Nello scenario rituale contadino si dice: “Se le va a garbin, tiol su el saco e va al molin. Se le va al furlàn, tol su el saco e va a pan”. Con la forca i contadini gettano in aria le faville pronunciando queste parole: “Tante favile, tanti sachi de panoce, tante favile, tanti sachi de formento”.

Mentre il “Panevin” brucia si intonano canti di esultanza e di preghiera, filastrocche per invocare un’annata favorevole ed abbondante come ad esempio “Qua pan qua vin, qua lane e lin, qua vedei e porzei, e la grazia di Dio sui caretei” e ancora “Pan e vin, la pintza sul larin, la luganega su par el camin”.

Nella tradizione cristiana si è voluto invece simboleggiare il “Panevin” con i fuochi dell’Epifania, quelli accesi dai pastori per asciugare i panni del Bambino Gesù e per rischiarare la via ai Magi smarritisi nella regione.

Il rito del “Panevin” si conclude con la consumazione cerimoniale della pinza cotta sotto la cenere come descritto in una vecchia ricetta che propone la preparazione della pinza: “Con la farina di granoturco, sopra la quale si versa dell’acqua bollente: quando si è un po’ raffreddata si aggiunge farina di frumento, s’impasta il tutto e poi avvolta in foglie di cavoli verzotti si cucina su l’ariola coprendola con la cenere”.

Il consumare insieme la pinza ha lo stesso significato di uno scambio di doni, della spartizione del pane, frutto del lavoro di tutti. Così avveniva tra la povera gente della civiltà contadina come aiuto reciproco, come solidarietà collettiva. La pinza è un pane speciale arricchito con finocchio, uvetta, pinoli, fichi secchi.

Con la pinza si beve del vin brulé e in certi luoghi, per tradizione se ne consumano di sette qualità, preparate da sette mani diverse come segno di buona fortuna. Uno spicchio di pinza e un bicchiere di vino vengono poi riservati alla Befana che è attesa per la mezzanotte e che viene giù dalla cappa del camino dove i bambini, andati a letto dopo il “Panevin”, hanno appeso le calzette che la vecchia riempirà di doni.

 SOPPRESSA DI ASIAGO E LA SOPRESSA VICENTINA DOP

È un insaccato tipico delle terre vicentine, ben diverso dal più conosciuto salame, ottenuto esclusivamente dalle carni del maiale, in dialetto veneto màs-cio.

La sua origine si può forse rintracciare in epoca medioevale, quando le vallate delle Piccole Dolomiti vicentine erano popolate da genti bavaresi e tirolesi. Appare per la prima volta in un dipinto di Jacopo Bassano datato 1577, poi nel 1777 in un inventario del notaio G.Farinoni di Vicenza che cita “un ferro per soppressare…”, e torna nel 1862 nei cosidetti “mercuriali”, antichi listini dei prezzi dei salumi emanati dalla Camera di Commercio di Vicenza.

Oggi la soprèssa vicentina è un prodotto Dop, riconosciuto tale nel marzo 2003 con un disciplinare che definisce confini piuttosto estesi per la zona di produzione all’interno del territorio della provincia di Vicenza, a nord le Piccole Dolomiti e l’Altopiano di Asiago, a sud i Colli Berici.
In realtà la vera produzione familiare/artigianale della specialità avviene nelle zone dell’alta Val Leogra, nelle contrade e nei piccoli comuni siti nelle vallate dei contrafforti montuosi del Sengio Alto, del monte Pasubio e del monte Novegno.

Nelle tavole del Veneto la sopressa occupa un posto di rilievo: si presta alla colazione di mezza mattina, alla prima colazione come antipasto o come secondo piatto, alla merenda pomeridiana, alla cena in famiglia o al dopo cena tra amici e nel vicentino esiste un vero e proprio turismo domenicale legato alla ricerca delle malghe, delle strutture agrituristiche, delle trattorie o delle osterie, dove levarsi lo sfizio e la voglia di questo gustoso insaccato.

Della “Sopressa Vicentina” esiste anche un Consorzio di Tutela che unisce tutti gli “attori” della filiera produttiva ed è impegnato nell’organizzazione e nel coordinamento del sistema dei controlli, nella produzione, nella promozione e nella tutela della qualità di tale prodotto, al quale è dedicata persino una divertente poesia di Emanuele Zuccato, intitolata “Sopressa del Pasubio”:


“A me sento svenir, presto l’essenza!”
– sbiancando in viso invoca la contessa –
Dise ai servi, del Conte l’ecelenza:
“Gninte sali! Porteghe ’na sopressa
de Vali del Pasubio (quela vera)
dove i porsei xe ingrassà a maroni.
Su, fèghela snasar! Zenòci in tera!”.
La contessa rinvien tra sospironi.

PORZINA

Parlare di piatti tipici, in una città dalla storia complessa come Trieste, rischia di essere più complicato del previsto e per spiegarvi il perché è bene riassumere in cinque righe la storia della città: storicamente fedele alla corona Asburgica, fino alla metà del ‘700 Trieste era un villaggetto di 5000 abitanti dimenticato da tutti, persino dai turchi che non si son mai dati la pena di torcerle capello, preferendo incendiare e saccheggiare ben altri insediamenti.

Plot twist: agli inizi del ‘700 l’Austria proclama Trieste Porto Franco e la popolazione passa nel giro di due secoli da 5.000 a 200.000. Il motivo naturalmente non è che i triestini non avendo Netflix si son messi a fare bambini come pazzi, si tratta dell’effetto di un sensibile fenomeno migratorio da tutto l’Impero Austroungarico e dall’intero bacino del Mediterraneo.

La porzina è fondamentalmente un lesso di maiale, in particolare tagli della coppa e talvolta della spalla. Si tratta senza dubbio dell’elemento più rappresentativo del lesso “alla triestina”, una preparazione tradizionale che mescola parti piuttosto nobili del maiale ad elementi più poveri e ricchi di ciccia, come appunto la porzina, la pancetta affumicata, costine di maiale affumicate, la “Vienna”  (è così che a Trieste si chiama il würstel), la “cragno” (un salsiccia del carso tagliata a grana grossa, dal vago sentore di affumicato),  il cotechino, il carré, la testina, la lingua (che assieme alla testina di vitello è l’unico elemento di origine non suina in tutto questo ben di dio), tutto cotto “in caldaia” un calderone in cui bolle il brodo primordiale da cui forse non si genera la vita che viene costantemente rinnovato e tenuto caldo. 

La caldaia non è un piatto domestico, raramente si fa in casa; la caldaia è il piatto tipico del “buffet”, parola che a Trieste non indica un mobile del ‘700 francese e nemmeno un banchetto in cui ci si serve da soli, bensì un particolare tipo di esercizio commerciale decisamente informale e pittoresco, destinato a spuntini e pasti veloci. Si esattamente quella cosa che noi chiamiamo fast-food ma che a Trieste esiste da metà ‘800.

GUBANA

LA GUBANA, DOLCE FRIULANO CON UNA STORIA ANTICHISSIMA CHE ANCORA OGGI RAPPRESENTA UN SIMBOLO DI BUON AUGURIO E PROSPERITÀ PER GLI ABITANTI DELLA REGIONE.

La gubana ha origini antichissime rispetto agli altri grandi lievitati diffusi nel periodo natalizio: viene citata già all’inizio del ‘400 nei documenti storici delle valli del Natisone, che collegano Cividale del Friuli e la valle dell’Isonzo. Nata come dolce da consumare in famiglia o nei pomposi banchetti di corte (come quello imbandito nel 1409 a Cividale per il papa Gregorio xii, composto da ben 72 portate), con il passare degli anni questa spirale d’impasto farcita si trasformò in una vera e propria merce di scambio, il che lascia intuire quanto fosse preziosa per gli abitanti del luogo.

Il testo di un contratto del 1576, la valuta al prezzo di “una lira di venti soldi” … lo stesso compenso riservato ai muratori professionisti per un’intera giornata di lavoro! Forse per questo il termine “gubana”, nel parlare comune friulano, sta ad indicare anche “una gran fortuna”, mentre i veneziani utilizzano una parola molto simile, “bubana”. Da dove viene, però, il nome del dolce? Molti studiosi lo ricollegano al verbo sloveno “gubati”, che significa proprio “fare pieghe”, gesto indispensabile per garantire la corretta lievitazione dell’impasto.

I friulani considerano la Gubana un dolce particolarmente ricco – da qui l’espressione “plen come una gubane” o “essere sazio come una Gubana” – da preparare soprattutto durante le festività pasquali e natalizie. In passato, però, veniva anche sfornata per celebrare le fasi più importanti della vita delle persone (compleanni, matrimoni, battesimi, comunioni, ecc) e distribuita a fette nel corso di sagre in onore del santo patrono del paese (come quella di San Donato a Cividale). Nella regione, comunque, se ne trovano due versioni diverse: quella delle Valli del Natisone, con un soffice involucro di pasta lievitata, e quella goriziana, rivestita da una sfoglia sottile e friabile, entrambe con la tipica forma a chiocciola;

 il ripieno, a base di  frutta secca, uvetta sultanina, pinoli, grappa e rum è lo stesso, ma la consistenza cambia completamente.

Nelle Valli del Natisone sussiste ancora l’antica usanza di confezionare in proprio la Gubana in occasione delle principali ricorrenze e festività locali. La Gubana è quindi un patrimonio di grande rilevanza culturale per le genti delle Valli. La qualità, gli ingredienti caratteristici ed i metodi di lavorazione sono un antico, rilevante e radicato patrimonio culturale degli abitanti di questo territorio. La possibilità che l’uso del nome Gubana, venga ammesso per un dolce similare altrove prodotto, sarebbe quindi una concessione ingiusta ed ingiustificata di valenza punitiva per queste genti. 

FRICO: Un’eccellenza friulana risalente al XV secolo

Datare le origini del Frico è praticamente impossibile, difficile stabilire quando gli abitanti della Carnia iniziarono a cucinarlo. Tuttavia, da un punto di vista ufficiale, il primo testo in cui appare la ricetta del “Frico friabile”, quello a base solo di formaggio, è il “De Arte Coquinaria”, scritto dal Maestro Martino Da Cuomo, cuoco del Patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan. Il testo scritto tra il 1450 e il 1467, è tutt’oggi considerato un caposaldo della nostra letteratura gastronomica perchè determinò il passaggio tra la cucina medievale e quella rinascimentale.

Gli ingredienti del Frico erano semplici: formaggio grasso né troppo vecchio né troppo salato, tagliato in strissulis, sottili strisce dall’aspetto simile a mozzarella, parti in eccesso dopo la sagomatura delle forme di formaggio; strutto fresco per non farlo attaccare sulla padella; erbe o spezie a condire.

La leggenda di Sant’ Ermacora

Una versione più leggendaria e dai toni mistici narra che il Frico sia nato dall’abbinamento casuale di alcuni poveri ingredienti ad opera dell’ingegno di Sant’Ermacora. Il santo durante la sua opera di proselitismo in Friuli, salì fino alle Alpi Carniche. Un giorno, stremato dalla fatica chiese la grazia di essere sfamato ed ospitato in casa di un povero pastore. L’unica cosa che l’uomo poteva offrirgli era polenta, una ciotola di siero ed un pezzetto di formaggio, così Sant’Ermacora suggerì di rimettere il siero sul fuoco e aggiungere quell’ unico pezzo di formaggio. Ne uscì “frico” delizioso che accompagnarono con poca polenta abbrustolita.

 

Il Nome

Fino alla fine dell’Ottocento il termine in uso di questo piatto aveva l’accento sull’ultima vocale: frico’. Tra metà Ottocento e soprattutto nel Novecento la lingua italiana ha contaminato il friulano parlato: essendo rare in italiano le parole con l’accento sulla tonica finale, gradualmente l’accento venne portato dalla “o” alla “i”. Sebbene oggi si utilizzi diffusamente il termine frìco a indicare il noto piatto, fricò è la pronuncia friulana originaria. 

Il Gioco

Al Frico si ispira anche il nome di un gioco da tavolo di battaglia culturale tra le città di Udine e Trieste, chiamato appunto “Frico”, le cui pedine hanno proprio la forma di Frico e i cui dadi sono di color tocai e teran, vini tipici delle due province. Il frico è un gioco di guerra culturale che tratta con ironia la scherzosa diatriba campanilistica che spesso contrappone le città di Udine e Trieste. Il confronto avviene a colpi di elementi culturali tipici delle due città, sullo sfondo dello scenario regionale. I territori da conquistare sono dunque da una parte i comuni friulani, dall’altra i rioni triestini, da Tolmezzo a Servola, separati dalla Bisiacheria, zona cuscinetto neutrale. Ciascun giocatore, sei al massimo, può scegliere quale delle due popolazioni interpretare durante la partita. I triestini sono divisi in bobelegere e nagane, i friulani in citadìnscontadìns e cjargnei.

Questo piatto della tradizione è una specialità particolarmente attuale per due motivi: è a km zero e nasce nel segno di una cucina senza sprechi. Nasceva dai ritagli di formaggi che si trovavano a casa. Sottostimato a lungo il tema degli sprechi alimentari è tornato ad essere emergente e a preoccupare visto le conseguenze socio-economiche ed ecologiche che si tira dietro. 

Il frico è un cibo che si usava limitatamente nell’area della Carnia. (ora la degustazione sta prendendo piede in tutto il territorio). E’ un poco conosciuto nella slovenia e nella bassa Carinzia. Le più antiche ricette del “frico risalgono alla metà del XV secolo e sono del Maestro Martino, cuoco di Ludovico Trevisan che fu Patriarca di Aquileia dal 1439 al 1465. Allora scrisse il “caso in patellecte”. Ancora si racconta che, quando Sant’Ermacora patrono di Udine andò a predicare il Vangelo ad Aquileia, salì anche a Zuglio e a Imponzo, passando poi ad “Ampezzo” e ai Forni Savorgnani.

Era allora un’annata di gran miseria ed il povero Santo, entrando in una casa di pastori domandò la grazia di essere ricoverato e sfamato. Vedendo quel viandante sfinito dalla stanchezza, il padrone di casa gli porse una fetta di polenta e, non potendogli offrire altro, chè tanta era la sua povertà, si dispose a dargli una ciotola di siero e a dividere con lui un pezzetto di formaggio, sottolineando: ‘Almeno potessi ricavare dalla caldaia un altro po’ di formaggio…!’.

‘Provate a riporre un’altra volta il siero sul fuoco!’ disse il Santo ‘E fatelo riscaldare: noi intanto pregheremo il Signore affinché ci esaudisca!’.

Mentre pregavano, il siero cominciò a bollire ed il pastore disse a Sant’Ermacora: ‘Col latte così caldo avremo un formaggio duro come un sasso!’.
‘E tu mettici un po’ di acqua fredda!’ disse il Santo.
‘Ed ora non ho neanche un pizzico di caglio!’ ‘E tu mettici un po’ di aceto!’

E così dicendo il Santo benedisse la caldaia, e si vide allora salire a galla una poltiglia biancastra, che il pastore si affrettò a levare col mestolo. Poiché scottava troppo il pover’uomo gridò: “squete” scota – cioè ricotta.

Allora il pastore mise in padella il pezzo di formaggio con la ricotta e ne uscì un “frico” eccezionale che accompagnarono con quel poco di polenta abbrustolita.

Sì dice dice che il frico è come le polpette e ognuno ha la sua ricetta.

Da ricerche fatte direttamente in Carnia, mi risulta che il vero frico, l’antenato, era fatto con la crosta del formaggio ….. si sa che in cucina non andava sprecato nulla, e da qui è nata l’esigenza di riciclare le croste (perchè un tempo nelle zone montane, il formaggio era un alimento sempre presente sulla tavola e il formaggio se lo potevano permettere quasi tutte le famiglie, poichè la mucca non mancava e quasi tutti i nuclei familiari ne possedevano almeno una.

Quindi le croste (anche del formaggio tenero), le lasciavano seccare bene, poi le tagliavano a pezzetti minuti e le cuocevano insieme alla minestra oppure si lasciavano abbrustolire vicino al fuoco del camino, oppure, nel nostro caso, venivano grattugiate, messe in uno strato alto un dito in una padella di ferro e quello era il frico originale.

Il frico fatto con la crosta del formaggio è tutta un’altra cosa.

 

FARINATA o FAINÂ DE ÇEIXI

La fainâ de çeixi  o farinata di ceci è una ricetta tipica della Liguria e nasce come piatto povero a base di farina di ceciacquasale e olio d’oliva. A Genova, malgrado i crescenti fastfood, resistono ancora le sciamadde, locali caratteristici dove si possono gustare torte salate, frisceu (frittelle) salati e dolci, pesci fritti e farinata cotta in grandi forni a legna.

A Savona viene preparata la “farinata bianca” che, come quella tradizionale, è nata durante l’assedio di Genova a Savona e prevede la sostituzione della farina di grano al posto di quella di ceci per una maggiore croccantezza.

Le origini della farinata, come spesso accade, si confondono tra storia e leggenda. Si narra che Ulisse, nell’assedio di Troia, finite le scorte di cibo, fece mettere l’olio e la farina di ceci, dentro i grandi scudi dei suoi guerrieri.

Altri raccontano che anche gli antichi Romani, durante l’ occupazione di Genova, cuocessero acqua e farina di ceci, meno costosa di quella di grano, sugli scudi al sole.

Il testo è il tegame di rame stagnato per cuocere la farinata.

Dagli scudi saraceni deriverebbe il termine “testo”; nella lingua araba colta e nobile, infatti, “testooh” significa scudo. Il testo è il tegame basso in rame stagnato che viene utilizzato, soprattutto in forno, per cuocere la farinata ma anche la focaccia al formaggio di Recco e le torte salate. Il diametro può variare dai 30 ai 150 cm.

 Sempre percorrendo le leggende sulla farinata genovese, un’altra la fa risalire al Medioevo, e precisamente nel 1284, in cui si svolse la battaglia della Meloria in cui la Repubblica di Genova sconfisse la rivale Pisa, catturando molti prigionieri. Nel corso degli scontri nel golfo di Buscaglia, si scatenò una furiosa tempesta, che fece imbarcare acqua nelle galee genovesi. Inoltre si ruppero alcuni barili d’olio che, mescolandosi ai sacchi di farina di ceci e all’ acqua di mare, formarono una poltiglia che venne fatta cuocere al sole. Si ottenne così la farinata che servi a sfamare l’equipaggio.

Una delle prime testimonianze scritte risale al 1477 quando, a Genova, un Decreto Legge disciplinò la ricetta della scripilita, nome antico della farinata, in cui veniva tassativamente vietato l’utilizzo di olio scadente perchè un olio di ottima qualità è essenziale per un buon risultato.

Presente in tutti i testi che parlano di cibo di strada, come quelle del Gambero Rosso e della guida internazionale Lonely Planet, la farinata è molto apprezzata dai turisti ed infatti ha varcato i confini nazionali, spesso portata dagli emigrati genovesi. Pertanto è diventa:

  • socca in Costa Azzurra;
  • calentita a Gibilterra;
  • caliente o calentita in Marocco, dove la ricetta prevede l’aggiunta di uova;
  • fainá in Argentina e in Uruguay dove, il 27 agosto, vi si celebra la “giornata della fainà”.


In Italia invece, la farinata di ceci, assume diversi appellativi:

  • fainà de ceixei o fainà in dialetto genovese;
  • cecina, torta di ceci o calda calda in Toscana;
  • bela cauda nel basso Piemonte e nell’alessandrino;
  • fainè in Sardegna e fainò a Carloforte, colonia di genovesi.

Molto presente sulle tavole, negli snack ma di recente anche negli aperitivi è apprezzata anche dai turisti, che la mangiano come cibo di strada. Storicamente presente nei ricettari italiani è immancabile in tutti i testi che parlano di cibo di strada, come quello di Stanislao Porzio o le guide di Slow Food e del Gambero Rosso fino alla guida internazionale di Lonely Planet.

FOCACCIA LIGURE

Appetitosa e morbida al punto giusto, magari da gustare appena sfornata seduti davanti al mare. Nella sua immutabile semplicità la focaccia ligure è pura eccellenza e sinonimo di prelibatezza. Un alimento che ben si sposa con tutti i pasti della giornata, colazione compresa. Non a caso un tempo veniva consumata anche in chiesa, come auspicio di prosperità. 

Le origini della preparazione della focaccia pare rimandino ai fenici, cartaginesi e greci e alla loro laboriosità nella lavorazione delle farine, in particolare orzo, segale e miglio. L’impasto e la cottura sul fuoco ha portato alla creazione di questo particolare alimento, non a caso in latino la parola fuoco è focus e rimanda al termine stesso di focaccia e alla cottura nel focolare. Con la parola focaccia si indicano tutte le varie tipologie, ma in particolare quelle più note cioè la barese e quella ligure. Anche se quest’ultima è ben più nota localmente attraverso il termine dialettale fugassa, che viene utilizzato sin dall’antichità e con scritti che rimandano al 1300.

Un cibo paradisiaco tanto che gli stessi romani la offrivano in dono alle divinità, anche se la nascita ufficiale della focaccia ligure avviene intorno all’anno mille. Tutto merito dei fornai dell’epoca che, nell’attesa della lievitazione e cottura del pane da sfornare, ingannavano il tempo con la pasta non lievitata. Che, una volta cotta rapidamente, veniva sfornata e consumata calda con l’aggiunta di salumi, verdure e formaggi. Un cibo spezzafame, in particolare quella delle lunghe notti di lavoro, e spesso accompagnato dal classico bicchiere di vino bianco: u gianchetto. Una sperimentazione che è diventata arte e tradizione locale tanto da trasformarsi nel prodotto tipico della città.

Cibo dei viaggiatori, dei passanti e dei pescatori, e oggi amatissima dai turisti, la focaccia di Genova un tempo veniva anche consumata in chiesa durante i matrimoni. Gli sposi erano soliti offrirne qualche pezzo agli invitati, come segno di fortuna e prosperità. Ma il rituale di masticazione durante le funzioni non piacque molto al vescovo di Genova, Matteo Gambaro, che finì per proibirla. La fugassa riuscì comunque a raggiungere i cuori della gente, in particolare quella più abbiente, proprio per le sue proprietà nutritive e la capacità di contrastare la fame. Per questo l’area portuale dell’epoca si riempì di fornaci e antiche friggitorie (sciammade), pronte a produrre e vendere la prelibatezza dorata. Con i secoli il prodotto originale, privo di lievito, riuscì a ritagliarsi nuovamente un posto di tutto rispetto all’interno dei banchetti e delle tavole di nozze rinascimentali. E secolo dopo secolo conquistò i cuori dei portuali e dei camalli che la trasformarono nella loro colazione, intinta direttamente nel caffè, e successivamente il palato delle persone di passaggio.

La semplicità della ricetta originale è cambiata con il tempo, subendo qualche modifica in favore dell’utilizzo attuale e introducendo il lievito di birra tra gli ingredienti. L’olio extra vergine di oliva ha sempre preso parte alla danza dell’impasto, nonostante in molti citino lo strutto ma in realtà mai utilizzato. Oggi, per dimezzare i costi, c’è chi utilizza oli meno nobili che rendono il prodotto meno digeribile e con una capacità di conservazione limitata.

Nonostante la ricetta abbia ceduto alle richieste attuali alcuni artigiani liguri prediligono la preparazione di un tempo, con ingredienti sani e salutari. La focaccia sfornata deve risultare bassa, alta non più di un dito, soffice, con degli occhielli creati con le dita in grado di accogliere l’olio, apparendo così dorata e gustosa. Secondo la tradizione si taglia a tasselli, si recupera il primo con le dita con la parte unta rivolta verso il basso così che possa abbracciare subito le papille gustative scatenando i sensi.

Focaccia di Recco IGP col formaggio

La storia della Focaccia di Recco col Formaggio inizia al tempo della Terza Crociata nel secolo XII.

In quel periodo storico i contadini Recchesi, costretti a rifugiarsi nell’entroterra a causa delle invasioni saracene, inventarono questo semplice piatto per approfittare degli unici ingredienti che avevano a loro disposizione: acqua, farina, olio extra vergine d’oliva, sale e formaggetta.

Dopo aver realizzato l’impasto lo cuocevano su una pietra d’ardesia bollente, una specie di testo per intenderci. Non sai cos’è il testo? È la pietra che si usa in Umbria per rendere croccante la famosa Torta al Testo. 

Racconta uno scritto dell’epoca: “Era la Pentecoste di rose dell’anno 1189… la cappella dell’Abbazia di San Fruttuoso accoglieva i crociati liguri per un solenne Te Deum prima della partenza della flotta per la Terra Santa… Sulle bianche tovaglie di lino ricamate facevano bella vista i piatti di peltro e di rame, zuppiere di ceramica e di coccio colme di ogni bendiio: pagnotte di farro ed orzo impastate con miele, fichi secchi e zibibbo, carpione di pesce, agliata, olive e una focaccia di semola e di giuncata appena rappresa (la focaccia col formaggio)…”

Pochi semplici ingredienti sono necessari per produrre l’autentica Focaccia di Recco: farina, formaggio fresco, olio extravergine, acqua e sale. Più un pizzico di segreto dell’essere focacciai recchesi che fa la vera differenza e la rende unica.

Da allora quella che ancora non si chiamava Focaccia di Recco divenne un piatto popolare tipico che rimase diffuso per secoli praticamente solo nelle zone rurali dell’entroterra.

Solo alla fine dell’800, quando iniziarono a spuntare i primi forni e le prime trattorie, la focaccia con il formaggio fu inserita nei menù ma era servita solamente nel periodo della Festa dei Morti.

Erano 5 i forni a Recco nei quali era prodotta e quello del Panificio Moltedo è l’unico che esiste tutt’ora.

Questa era lo stato della produzione fino all’inizio degli anni ’50. A partire da quella decade la zona del Levante ligure si sviluppò turisticamente e i ristoratori della zona capirono che la Focaccia di Recco col Formaggio piaceva molto ai turisti sia a grandi che ai piccoli. È proprio da quel momento che è prodotta tutto l’anno.

Oggi la Focaccia di Recco col Formaggio si trova dovunque: nei panifici, nei ristoranti, nelle pizzerie e in tutti gli altri locali che vendono prodotti gastronomici. Ma anche nei bar e negli stabilimenti balneari.

E sono moltissimi i personaggi famosi che sono stati immortalati mentre mangiavano una squisita fetta di Focaccia di Recco col Formaggio: da Gino Bramieri a Walter Chiari solo per fare alcuni nomi.

Si narra che in tempi lontanissimi la popolazione di Recco si rifugiasse nell’immediato entroterra per sfuggire alle incursioni dei saraceni.
La possibilità di disporre d’olio, formaggetta e farina, avrebbe fatto preparare una pasta ripiena di formaggio, cotta su pietre d’ardesia, e chiamata “Focaccia col Formaggio”.
Secondo studi effettuati alla fine degli anni ’90, sembra che questo alimento esistesse già all’epoca della terza crociata.
“Era la Pentecoste di rose dell’anno 1189… la cappella dell’Abbazia di San Fruttuoso accoglieva i crociati liguri per un solenne Te Deum prima della partenza della flotta per la Terra Santa… Sulle bianche tovaglie di lino ricamate facevano bella vista i piatti di peltro e di rame, zuppiere di ceramica e di coccio colme di ogni ben di Dio: pagnotte di farro ed orzo impastate con miele, fichi secchi e zibibbo, carpione di pesce, agliata, olive e una focaccia di semola e di giuncata appena rappresa (focaccia col formaggio)…”
Alla fine dell’800, quando aprirono a Recco le prime trattorie, la Focaccia col Formaggio veniva proposta nel periodo della celebrazione dei morti. Fu solo agli inizi del novecento che, grazie all’intraprendenza di Manuelina (una ristoratrice del luogo), la focaccia col formaggio vide il suo sviluppo, diventando una golosità apprezzata tutto l’anno. Di quei tempi si ricorda che Guglielmo Marconi e l’Infanta di Spagna passavano da Recco anche per degustare la celebre focaccia locale.

LISOTTI o FAZZINI

Il Lisone, Lisotto o Fazzino ( a seconda del posto)  è una morbida focaccina di patate tipica della Val Bormida; ogni paese dell’entroterra in realtà apporta variazioni alla ricetta base – e soprattutto al condimento – per proporre ognuno il suo piatto della tradizione.

Si tratta di una piadina cotta alla piastra e servita, in origine, con salsa a base di aglio, alla quale poi sono state aggiunte altre apprezzate varianti a base di gorgonzola, nutella, marmellata ecc. per palati meno forti.

Gli ingredienti originali erano farine di cereali (Grano, Farro, Segala,) acqua e un po’ di sale;

Anche la sua cottura era semplice, bastava una piastra rovente o una pietra arroventata sul fuoco;

Per la sua semplicità e la sua economicità essa era il piatto base di gente che lavorava in condizione precarie (carbonai, boscaioli, pastori,) il suo “condimento” era semplicissimo, bastava sfregarle sopra un po’ d’aglio per darle una fragranza caratteristica.

Con la scoperta dell’America venne introdotta in Europa la patata, ma questo tubero non ebbe uso alimentare sino ai primi del milleottocento, a causa dei pregiudizi che ne frenarono il consumo; circa alla metà del milleottocento si affermò tra i pallaresi un nuovo tipo di focaccia :” Il Lisotto”, che nell’antica ricetta aggiunse un nuovo ingrediente, la Patata.

Da allora “il lisotto” conservò immutata nel tempo la sua ricetta; i suoi condimenti seguirono poi l’evolversi della cucina contadina locale: accanto all’aglio, apparvero i formaggi o altri ingredienti, e il Lisotto si abbinò ad ogni nuova proposta esaltandosi ai nuovi sapori.

Naturalmente esso non fu soltanto “Pallarese”, fu diffuso ovunque operassero pastori, contadini, carbonai o mulattieri, ma a Pallare esso mantenne la ricetta originale, che conserva gli antichi segreti. (Fonte: Web)
In altri posti della Val Borbida, si usa aggiungere bicarbonato o lievito all’impasto, piuttosto che eliminare le uova ed a seconda degli ingredienti muta il nome di questa semplice focaccina.

PIADINA O PIADA ROMAGNOLA

La piadina o piadapiedapidapiè, secondo i dialetti locali, è una preparazione a base di farina di frumento tipica della Romagna e della zona alta delle Marche, in particolare delle provincie di Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini e Pesaro-Urbino.

La piadina si presenta come una sfoglia spianata e circolare, generalmente sottile, e si consuma a fette come fosse pane oppure intera farcita a piacere: salata con salumi, formaggi e verdure oppure dolce con marmellata, miele o cioccolata spalmabile. La piadina romagnola ha origini antichissime, proviene da una tradizione contadina povera e semplice, ma negli anni è stata in grado di conquistare le tavole di tutti i buongustai e ha raggiunto una fama a livello mondiale.

 I primi a cucinare una versione rudimentale di piadina sono stati gli Etruschi, i quali furono i pionieri nella coltivazione e lavorazione dei cereali e quindi nella produzione di “sfarinate” (semplici sfoglie ottenute dall’impasto di diverse farine e acqua, senza lievito, e poi cotte su lastre di pietra roventi) che somigliavano molto all’attuale piadina, anch’essa preparata senza lievito e cotta su una piastra di metallo o di pietra. Le sfarinate, le rudimentali piade, continuarono ad essere prodotte anche nell’Antica Roma, dove rappresentavano un cibo da ricchi perchè dovevano essere mangiate appena cotte; già dopo qualche ora, infatti, diventavano dure e non masticabili, quindi non erano adatte ai plebei che, invece, avevano bisogno di un cibo che si conservasse a lungo.

Nel Medioevo ci fu un’inversione dei ruoli, per così dire: dato che tutti i prodotti lievitati erano di dominio e appannaggio esclusivi dei ricchi, sfarinate e piadine semplici, senza lievito, prodotte solo con farine meno pregiate, tipo quella d’orzo, e acqua, divennero il cibo dei poveri. Via via che nacquero le scuole di cucina e che la gastronomia divenne una vera e propria arte, la piadina fu relegata nell’angolo dei cibi poveri, era considerata un “pane rude”, diffuso solamente tra i contadini e i ceti meno abbienti che aggiungevano anche ghiande e legumi secchi al suo impasto per renderla più nutriente e saziante possibile.

Durante il Novecento la piadina vive il suo periodo di rivalsa, inizialmente si diffonde su tutte le tavole romagnole, poi diventa un cibo di strada, preparata e cotta al momento dai chioschi lungo la costa adriatica e quindi, grazie ai turisti, già dagli anni Cinquanta ottiene una fama internazionale. 

Il primo documento che testimonia un legame forte e indissolubile tra la piadina e la sua zona d’origine, la Romagna, risale al 1371, un testo in cui si legge che la città di Modigliana, in provincia di Forlì, doveva pagare al Cardinale Angelico ben due piade. Più recentemente, nel 1900, il poeta Giovanni Pascoli, originario di San Mauro di Romagna, scrisse una poesia dedicata alla piadina dove la definisce “il cibo nazionale dei romagnoli”, donandole quindi sia una maggiore visibilità a livello nazionale che una maggiore dignità culinaria.

“IL PANE, ANZI IL CIBO NAZIONALE DEI ROMAGNOLI”
(Giovanni Pascoli descrive la Piadina)

Ancora, nel 1920, l’intellettuale Aldo Spallicci creò una rivista chiamata “La Piè”, dove analizzava le tradizioni culturali romagnole. Fin dai primi anni del Novecento, dunque, la piadina divenne una specialità gastronomica romagnola, un piatto di cui andare fieri ed orgogliosi.

Molte le poesie e canzoni dedicate alla piadina come: 

  • La Piada” di Giovanni Pascoli
  • “La Piè” (Il pane dei poveri) di Marino Moretti
  • “La piê” è anche il nome della rivista culturale fondata da Aldo Spallicci nel dicembre 1919. Tutt’oggi esistente, è considerata la più prestigiosa rivista di cultura romagnola.
  • Burdèla campagnola, canzone in dialetto romagnolo di Secondo e Raoul Casadei dedicata alla piadina.
  • “La piadina” di Rosy Velasco che in modo ironico divulga la ricetta della piadina romagnola
  • “Magna la piadina” ballo di gruppo di Betobahia
  • La canzone “Freak” di Samuele Bersani del 1994 contiene il verso: “Hai più pensato a quel progetto di esportare la piadina romagnola?”
 

Prima ancora che la Piadina divenisse la specialità di grande successo che ben conosciamo al giorno d’oggi, erano le ‘azdore’, vale a dire le massaie romagnole, a tirare il suo impasto in sottili sfoglie. Per farlo si servivano del loro fido mattarello, il cosiddetto ‘sciadur’.

Essendo molto vasto il territorio dove viene prodotta, non esiste un’unica ricetta della piadina, si parla piuttosto di diverse varianti locali: c’è chi mescola la farina di frumento con la farina di mais, chi usa ancora lo strutto come facevano le nonne e chi lo sostituisce con l’olio, chi usa un po’ di lievito, ecc…Anche nell’aspetto le varie piadine romagnole non sono identiche: nella zona del riminese per esempio, è più fine e larga, man mano che si sale più a nord, verso Ravenna, diventa più spessa e stretta.

Il modo più tradizionale per cuocere la Piadina prevede l’uso del cosiddetto ‘TESTO’, vale a dire un particolare tipo di teglia in terracotta (*1). I ‘testi’ più pregiati (*2) sono ancora oggi prodotti nella zona di Montetiffi: opera di artigiani che, dopo aver impastato una miscela di argille, le danno (rigorosamente a mano) la caratteristica forma circolare dal bordo rialzato. L’operazione termina con la stagionatura e la cottura in forno a legna.
A partire dagli anni ‘60 i ‘testi’ sono sempre meno utilizzati, sostituiti da lastre metalliche o, nel migliore dei casi, in pietra refrattaria.

La piadina può essere farcita a piacere con salumi, porchetta, formaggi morbidi come lo stracchino o lo squacquerone, rucola, pomodorini, verdure grigliate ecc… Nel caso la si volesse mangiare nella versione dolce  si può  aggiungere un pizzico di zucchero al posto del sale nell’impasto e poi una farcitura di marmellata, cioccolata spalmabile, saba o savor, due prodotti tipici romagnoli, il primo è un mosto cotto, la seconda è una  confettura preparata con mosto di uva nera, mele, pere e noci. 

Da qualche anno a questa parte si è iniziato anche a commercializzare, oltre alla piadina tradizionale, il cosiddetto ‘rotolo’, vale dire una piadina che viene farcita e quindi arrotolata.

Attualmente la piadina è iscritta nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali italiani (PAT) della regione Emilia-Romagna e alcune associazioni per la promozione e la tutela della piadina romagnola nel 2003 hanno richiesto la certificazione IGP (ottenuta dopo 10 anni nel 2014, vedi articolo sulla piadina romagnola IGP) per le due varianti di questo prodotto: Piadina Terre di Romagna e Piadina Romagnola di Rimini.

LA PIADINA ROMAGNOLA E LA RIMINESE

Secondo il Disciplinare redatto dal Consorzio, la ‘Piadina Romagnola’, conosciuta anche come ‘Piada Romagnola’, si presenta in due tipologie, vale a dire: la ‘Piadina Romagnola’, preparata nell’entroterra della regione, e la Piadina Romagnola ‘alla Riminese’ (o ‘Piada Romagnola alla Riminese’), preparata nella zona costiera, che è, di fatto, una variante della prima. Si riportano di seguito le principali differenze:

  • LA PIADINA ROMAGNOLA

Ha un diametro medio che oscilla tra i 15 e i 25 centimetri (inferiore quindi a quello della variante riminese).
Ha uno spessore medio che oscilla tra i 4 e gli 8 mm (superiore quindi a quello della variante riminese).
Si presenta come un disco di colore bianco-avorio caratterizzato da macchie ambrate (dovute alla cottura), di piccole dimensioni, uniformemente distribuite sulla superficie.

  • LA PIADINA ‘ALLA RIMINESE’

Ha un diametro medio che oscilla tra i 23 e i 30 centimetri (superiore quindi a quello dell’altra tipologia).
Ha uno spessore medio di circa 3 mm (inferiore quindi a quello dell’altra tipologia).
Si presenta come un disco anch’esso di colore bianco-avorio, caratterizzato questa volta da macchie (o ‘vesciche’) di grandi dimensioni, distribuite in modo casuale sulla superficie.

Va infine sottolineato il fatto che la Piadina Romagnola è di consistenza rigida e friabile, mentre la tipologia ‘Riminese’ è sicuramente più morbida ed elastica.

A Forlì, in occasione della festa della Madonna del Fuoco, patrona della città, è tradizione preparare una versione dolce, festiva, della piadina, chiamata piadina della Madonna del Fuoco o pane della Madonna del Fuoco. 

Si racconta che in un anno non precisato di qualche secolo fa la carestia si fece sentire pesantemente a Forlì. Così, nel giorno della Madonna del Fuoco, la Cattedrale decise di vendere i voti fatti dai fedeli e utilizzare le offerte per comprare gli ingredienti necessari alla confezione di un pane dolce della festa da donare ai forlivesi per alleviarne la fame e sollevarne l’umore in onore della Festeggiata. 

Nacque così una ricetta profumata che con la forza della semplicità e della riconoscenza seppe cavalcare il tempo ed entrare nella tradizione dei forlivesi: cosa decisamente non facile per una città che dimentica con facilità il passato.

Gli ingredienti tradizionali risultano: farina, latte, zucchero, burro oppure olio extravergine di oliva, lievito di birra e – particolarità – semi di anice.

TIGELLE BOLOGNESI O CRESCENTINE MODENESI 

La tigella è una piccola focaccina di forma circolare tipica della zona appenninica emiliana, in particolar modo tra le province di Bologna e Modena, dove viene mangiata ripiena di salumi e/o formaggi. Di solito non si consuma una sola tigella, che è molto piccola, ma più tigelle, quindi è abitudine chiamarle al plurare: tigelle.

Le tigelle derivano molto probabilmente dal modo di cuocere le focacce in epoca romana all’interno di contenitori di terracotta (in latino il verbo “tegere” significa ricoprire). Lungo tutto l’Appennino modenese e bolognese da secoli si ha l’usanza di prelevare l’argilla scavando nei boschi di castagni, di lavorarla amalgamandola con terra e acqua formando dei piccoli dischi (10-15 cm di diametro) e infine di cuocerla sotto la cenere ardente. Questi dischi venivano chiamati tigelle e spesso erano decorati in bassorilievo con motivi quali stelle, cerchi, punte ecc.. Il più comune counque era quello della stella-fiore, meglio conosciuto come fiore della vita, simbolo di fecondità. All’ interno ditali tigelle veniva riposto l’impasto avvolto in foglie di castagno e poi cotto vicino al focolare, sotto la cenere.

Questa tradizionale forma di cottura delle tigelle ormai è caduta in disuso, sono poche le famiglie e le osterie che ancora producono le tigelle usando i dischi di terracotta e cuocendole davanti al camino, più spesso si usano padelle apposite, le tigelliere in alluminio o in materiale refrattario, da mettere sul fuoco a gas. Una volta pronte, le tigelle venivano tagliate a metà in senso orizzontale, farcite con salumi, formaggi a pasta molle o pesto montanaro e mangiate ancora bollenti. Questa parte della tradizione è rimasta tuttora intatta…

 Le tigelle sono di fatto un pane condito, e quindi si abbinano a qualunque cosa possa essere abbinata al pane, sia essa dolce o salata.

Classicamente in Emilia vengono abbinate al classico pesto montanaro (vedi sotto), ai salumi locali (coppa di testa, ciccioli, prosciutto crudo, salame, salsiccia secca, ecc), ai formaggi morbidi locali, a sott’aceti e sott’oli. Per quanto riguarda gli abbinamenti dolci, l’abbinamento con i fichi caramellati e il formaggio morbido è un grande classico della zona, ma anche l’abbinamento con marmellate e soprattutto Nutella

Il nome stesso subisce variazioni in base alla zona: a Bologna vengono chiamate tigelle, dal nome del particolare strumento su cui venivano tradizionalmente cotte, a Modena, invece, vengono chiamate più spesso crescentine o crescente, nome questo che a Bologna sta ad indicare un altro tipo di focaccia, la crescentina, più soffice e fritta nell’olio anch’essa consumata ripiena di salumi e/o formaggi. Al di là dell’apparente confusione linguistica, la realtà è molto più semplice e definendole tigelle si viene capiti in ogni osteria, ristorante o baracchino della regione.

La tigella è la protagonista assoluta delle proposte gastronomiche di Dispensa Emilia, presente con vari ristoranti in tutta Italia.

La ricetta originale delle tigelle prevede un impasto di farina, bicarbonato, lievito, sale e acqua (gassata o naturale), ma negli ultimi anni si è molto diffusa la variante con o senza strutto, oppure con burro o ancora con zucchero. Una caratteristica delle tigelle è il ripieno: tradizionalmente le crescentine vengono farcite con la “cunza”, ovvero un trito di lardo di maiale, rosmarino e aglio direttamente nell’impasto; a questa versione si sono aggiunte numerose  farciture  a base di formaggiverdurasalsesalumi  e addirittura dolci. Nel menu di Dispensa Emilia, le tigelle sono disponibili in versione salata e dolce, anche in formato degustazione. Sono state ideate anche tigelle vegetariane e tigelle assortite con alcuni degli  ingredienti  migliori della  cucina italiana: Prosciutto Crudo di Parma DOP, Parmigiano Reggiano DOP, aceto balsamico di Modena, Mortadella Bologna IGP, che rappresentano  solo alcune delle materie prime utilizzate per farcire le tigelle

MUSEO DELLA TIGELLA

LOCALITÀ SAMONE DI GUIGLIA (MO) NEL BORGO ANTICO, VIA CASTELLO 105

All’interno del Parco Regionale dei Sassi di Rocca Malatina, tra macchie boscate, prati e vecchi castagneti si trova l’antico 

borgo Samone che ospita la mostra permanente della Tigella

Samone è uno splendido borgo medioevale ad andamento circolare, il cui nome compare per la prima volta nel 1048 in un documento ritrovato nell’Abbazia di Nonantola. 

L’accesso al borgo è caratterizzato da un portale ad arco che attraversa una casatorre, costruita nella seconda metà del Quattrocento a difesa dell’abitato. Sulla facciata d’ingresso durante i lavori di restauro è stata ritrovata una finestra gotica trilobata decisamente insolita e di elevata rilevanza architettonica. All’ultimo piano della casa-torre, nella suggestiva Sala degli stemmi, è ospitata la Mostra della tigella. Le pareti della sala sono interamente affrescate e di queste decorazioni si sono conservate vaste superfici, tra cui l’immagine di un viso ancora ignoto e due stemmi appartenenti alla famiglia dei Pio, feudatari di Carpi e di Sassuolo, signori di Guiglia e di Samone dal 1405 fino al 1525. In questa sala, dove il tempo si è fermato all’epoca rinascimentale, fanno splendida mostra di sé le tigelle, dischi di terracotta refrattaria variamente decorati e che tuttora sono prodotti in questa zona per la cottura delle tipiche “crescentine”. 

Il percorso espositivo illustra il ciclo dei lavori connessi alla produzione delle “crescentine”, il cibo un tempo principale per gli abitanti della zona anche nei periodi di carenza di alimenti. Si possono osservare strumenti della vita contadina (trebbiatura del grano, raccolta delle castagne e molitura) e per la preparazione delle tigelle. 

Nel museo è possibile ammirare anche frammenti rinvenuti di tigelle risalenti all’epoca medievale ,che testimoniano l’uso antichissimo di questo strumento di cottura.

Durante la visita ogni cosa è testimonianza di quanto la tecnica di produzione delle tigelle richieda cura e abilità, sia nella scelta dei materiali, che nell’esecuzione delle diverse fasi di lavorazione. Gli elementi naturali che la costituiscono sono l’argilla e la calcite facilmente rinvenibile sui calanchi.

 Il composto ottenuto dalla miscelazione attenta di pietra frantumata e terra, impastato e battuto per alcune ore, consente di ottenere una formella pronta ad essere sagomata attraverso lo stampo di legno duro riportante il decoro. Per essere essiccata la tigella viene mantenuta, per circa un mese, in un luogo buio. Nell’ultima fase la formella viene cotta per circa un’ora. 

Oggi le tigelle tradizionali sono state sostituite da prodotti industriali in alluminio, in ghisa o in pietra refrattaria, ma i palati più raffinati pretendono che le crescenti siano cotte con la tecnica antica.

 Lungo il percorso è possibile osservare altri attrezzi collegati al ciclo del pane, come antiche pietre impiegate per la trebbiatura, la pila con la stanga, uno strumento utilizzato in passato per la sbucciatura delle castagne essiccate, la vassora utilizzata per separare le castagne sbucciate dalla pula. 

Completano l’esposizione un modellino funzionante di mulino ad acqua e di macchina per la trebbiatura del grano.

GNOCCHI FRITTI

Fra la via Emilia e il West succede quasi tutto in cucina, in quei locali a cui, diceva Ligabue, dai del tu. E tanto succede attorno al pane che, lungo la via Emilia, ha tanti nomi. Se si parte da sud si incontra prima la piadina, seguono crescente, crescentine, gnocco fritto, salendo sulle colline modenesi le tigelle, ma anche i borlenghi, i ciacci, le streghe, la sfogliata, la torta fritta. Non ci si stupisca scoprendo che sono tutti la stessa cosa. Pane azzimo: farina e acqua. Questo dice la ricetta originale. Da qui in poi si fa tutto il resto. «Cambiano i nomi, ma i prodotti sono analoghi e la differenza – spiega Enrico Belgrado autore di Ma sei di coccio? Tigelle, crescenti, piadine e focacce…lungo la via Emilia edizioni del Loggione – la fa soprattutto l’altitudine: pianura, collina, montagna. Fino a dove sono arrivati i Longobardi, dunque fino a Bologna, c’è la cultura del maiale, del grasso animale. In Romagna no». In pianura si frigge, in montagna molto meno. In Emilia si frigge, in Romagna si usa il testo, il contenitore di terracotta, per cuocere sulla piastra o sul fuoco. E allora ecco la leggenda che narra la nascita dello gnocco fritto, lardo di maiale incluso. 

«C’era una volta un gruppo di rivoluzionari che amava sfidare gli sbirri papalini. Ogni venerdì questi simpatici buontemponi si davano appuntamento in un’osteria, sempre diversa, lungo la via Emilia per mangiare focacce, piadine e tigelle condite con spesse fette di lardo.

 Una sera una moglie fece una soffiata agli sbirri che irruppero nell’osteria dove si trovavano i rivoluzionari sicuri di trovare i sovversivi intenti a “mangiare di grasso”. Loro però si erano liberati del “corpo del reato” gettando il pezzo di lardo dentro una pentola vicino al fuoco con l’intento di nasconderlo. 

Quando gli sbirri perquisirono il locale burlone del gruppo buttò lì l’idea che il grasso veniva utilizzato per cuocere un pane speciale. Gli sbirri gli chiesero una dimostrazione. Prese un pezzo di pasta, la stiracchiò a modo e la immerse nel grasso fuso caldo. Non lo sapeva ancora ma, tra la burla, lo sberleffo e la paura era nato lo gnocco fritto, una delle delizie del creato». 

In realtà sono tutti pani e tutti poveri. «Il pane povero si fa con quello che si ha sottomano. In ogni zona si è cercato di ottimizzare il prodotto che c’era. Qualcuno è diventato piatto tipico, altri sono scomparsi» spiega Enrico Belgrado. Si parte sempre da una pastella. A volte viene fritta, a volte cotta sul testo. Si confondo anche i nomi. «In montagna c’è chi si ostina, seguendo la tradizione, a chiamare la tigella ancora crescentina, ma ormai il nome in uso è l’altro che viene dal contenitore per la cottura». 

Gnocco fritto e crescentine si vedono per lo più con il salume, ma c’è ci le consiglia con uva bianca o insalata di peperoni, peperoni e cipolla. 

Fino a qualche decennio fa se ne faceva in abbondanza per tenerle per la colazione da inzuppare nel latte.

C’è inoltre chi propone lo  gnocco fritto dolce in una variante gustosissima: il gnocco fritto ripieno con Nutella.

“IL” GNOCCO FRITTO MODENESE

Gnocc frett, al gnocch frètt, ‘l gnoc: sono parecchie le versioni in dialetto per chiamare “il” gnocco fritto, variante diffusa più che altro nelle province di Modena e di Reggio Emilia. Secondo la Confraternita del Gnocco d’Oro, la ricetta originale prevede l’uso di ingredienti semplicissimi, come farina, acqua gassata, sale e strutto. Niente lievito, quindi: si gonfia naturalmente grazie all’effetto dell’acqua minerale gassata. Inoltre, niente “olio nella frittura ma solo strutto”. In alcuni casi, è accettata l’aggiunta del latte nell’impasto per ammorbidirlo. La pasta viene stesa col mattarello e tagliata in rombi o rettangoli di circa 10-15 cm circa, oppure in tondi più grandi dal diametro di circa 25 cm, che vengono poi fritti nello strutto bollente. 

LA CRESCENTINA FRITTA BOLOGNESE

A Bologna e provincia, lo gnocco fritto è anche conosciuto come “crescentina fritta” (attenzione, però, a non chiedere una crescentina a Modena, perché con quel termine si intendono le tigelle). A differenza della ricetta del gnocco fritto modenese o reggiano, questa preparazione prevede come ingredienti anche il lievito, olio extravergine, acqua tiepida e latte intero. Si taglia l’impasto a losanghe e si possono friggere le crescentine nello strutto oppure nell’olio di semi. Il risultato? Una specialità quadrangolare soffice e con rigonfiamenti circolari (dovuti alle bolle d’aria che si creano durante la fase di frittura), pronta per essere gustata!

LA TORTA FRITTA DI PARMA

Come abbiamo visto, ogni città chiama questa sfiziosità fritta in modi diversi, e in tutto il territorio parmense si chiama “torta fritta”. Perché questo nome particolare? Pare che in quelle zone, prima di servirlo in tavola, era abitudine spolverarlo con lo zucchero e mangiarlo come perfetta conclusione del pasto. Perciò, all’inizio era considerato una sorta di dolce: solo col tempo si è scoperto che poteva essere degustato anche “salato”, in abbinamento a salume e formaggi. Per la sua preparazione si usano farina, olio, sale, lievito, acqua e, infine, lo strutto per la frittura.

IL PINZINO FERRARESE

Ci spostiamo verso il territorio ferrarese dove, a pochi km di distanza oltre l’argine del fiume Reno, le crescentine fritte sono chiamate “pinzini”. Originariamente, la forma era più piccola e circolare, bucherellata in superficie con i rebbi della forchetta, mentre adesso si possono trovare anche tagliati a rombi. Per quanto riguarda l’impasto, si tratta sempre di una pasta lievitata che può essere fritta in entrambi i modi, nello strutto o nell’olio.

IL CHISOLINO PIACENTINO

Concludiamo il nostro viaggio alla scoperta delle varianti del gnocco fritto nella Bassa piacentina, al confine tra il Parmense e il Cremonese: qui, questa specialità di pasta fritta è chiamata in dialetto locale chisulén e poi italianizzato con “chisolini”. Si tratta di un prodotto che appartiene alla cucina “povera”, perché doveva servire come alimento sostitutivo del pane, in caso di improvvisa mancanza nelle dispense. 

Per quanto riguarda la sua origine, pare che sia legata in maniera indissolubile al patrimonio culturale e gastronomico di Fiorenzuola, tanto da essere anche valorizzato con il marchio De. Co. dalla città.

 L’impasto, realizzato con farina, acqua, lievito e strutto, veniva tirato sull’asse della madia (in piacentino, la “mesa”) con il mattarello (la “canela”), tagliato in forme diverse – rettangolari, a grissino o a bocconcino – e poi fritto nello strutto di suino.

Il gnocco fritto emiliano è un vero e proprio street food che si può consumare in abbinamento con salumiformaggi verdure e nei contesti più svariati: dalla colazione alla cena, come antipasto o come spuntino, ma anche in sostituzione del pane. I vini frizzanti e secchi sono quelli che meglio si sposano con il gnocco fritto e la tradizione vede ovviamente i migliori  Lambruschi emiliani. 

IL CIAFFAGNONE DELLA VAL DI CHIANA

Bistecca alla Fiorentina, pappardelle al cinghiale, ribollita, pappa al pomodoro. Quanto buon cibo si può trovare all’interno di una sola regione?! In Toscana davvero tanto!

Un piatto della tradizione contadina che solo in pochi conoscono e che ha radici antichissime, poiché risale al Cinquecento è ….

Lo Ciaffagnone, l’antenato della crêpe

Una vera prelibatezza dello street-food toscano, il Ciaffagnone è un piatto tipico del caratteristico borgo della Maremma Toscana: Manciano.

Non è una crêpe, non è una piadina, né tanto meno una frittata. 

Il ciaffagnone è una pietanza a sé e i toscani ci tengono molto a precisarlo.

Il Ciaffagnone è una specie di frittatina considerata l’antenata delle famose crêpes francesi, dalle quali si differenzia per l’uso del burro al posto del lardo e del latte al posto dell’acqua. 

Le prime a preparare i ciaffagnoni sono state le cuoche della Rocca Aldobrandesca di Manciano: le cucinavano per i loro signori, tra i quali gli Aldobrandeschi, gli Orsini di Pitigliano e Caterina de’Medici.
Fino al ‘500 i ciaffagnoni erano noti essenzialmente in Toscana, diffondendosi con nomi differenti come “la migliaccia” a Pitigliano e “Pezzòle della Nonna” a Firenze. Quando Caterina de’Medici, andata in sposa nel 1533 a Enrico II di Valois duca d’Orleans, si trasferì alla corte francese, portò con sé il suo seguito di cuochi toscani. 

Si tratta – effettivamente-  di un disco di impasto ottenuto da acqua, farina, uova e sale, cotto in una padella di ferro unta con del lardo, e secondo la tradizione deve essere condito solo con una spolverata di cacio pecorino stagionato.

A una prima occhiata risulta molto simile a una crêpe. In realtà l’impasto nostrano è molto più leggero vista l’assenza di burro e latte, ed è decisamente più sottile. Sì, perché una delle caratteristiche principali del ciaffagnone è il suo spessore, tanto sottile da sembrare trasparente.

Il ciaffagnone è una pietanza tipica di Manciano e di San Casciano dei Bagni, che se ne contendono la paternità. 

Al di fuori di queste due piccole realtà, invece, il ciaffagnone non gode di grande fama, né a livello nazionale né tanto meno nel panorama regionale.

Ogni anno però, , verso l’inizio dell’estate, a San Casciano dei Bagni si celebra la sagra del ciaffagnone, in cui si assapora il gusto autentico di questa prelibatezza accompagnato da un buon bicchiere di vino.

5 E 5 IL PANINO DI LIVORNO

Livorno è una città portuale dalla storia singolare, aperta e multietnica con una connotazione fortemente popolare e verace, dal vernacolo schietto e rude,  dall’umorismo unico, patria del “deh” e di Mascagni, del Vernacoliere, del cacciucco, delle triglie, del ponce, non poteva non avere anche un suo cibo da strada: il 5e5!

Il 5 e 5 ha una storia tutta da scoprire ma la ricetta, di per sé, è alquanto semplice. Si tratta di un panino senza latte né strutto (tipo francesino) farcito con torta di ceci. La torta di ceci (mi raccomando non chiamatela cecina perché “è da pisani”) viene tagliata a fette, spolverizzata di abbondante pepe e messa nel panino o focaccia, e va consumata rigorosamente calda.

Tradizione vuole che il panino 5 e 5 sia accompagnato da una bevanda analcolica d’altri tempi, che a Livorno è ancora piuttosto gettonata: la spuma bionda. Un bibita color caramello, realizzata con acqua, zucchero e aromi vari.

Il pane utilizzato per il panino 5e5 è il pane francese (non baguette!) oppure schiaccia, entrambi senza latte e strutto. Il grande protagonista di questa ricetta, la torta di Ceci, o semplicemente Torta, è una sorta di crespella preparata con farina di ceci, acqua, olio extravergine d’oliva e sale. Viene cotta preferibilmente in forni a legna, in speciali teglie tonde di rame stagnato.

Sopra la torta si può aggiungere una spolverata di pepe e, negli ultimi 20 anni, è stata ammessa un’unica, gustosissima, variante: le melanzane sotto pesto. Attenzione: non si tratta del pesto genovese. “Sotto pesto” a Livorno significa con aglio, peperoncino e aceto.

A partire dagli anni Trenta in poi, il panino cinque e cinque è diventato a Livorno irrinunciabile, una sorta di rito quotidiano, economico ma con gusto. Nella città toscana, si diffuse così la consuetudine di chiedere ai tortai 5 lire di pane, appunto, e 5 lire di torta. Da qui l’abbreviazione “un 5e5”.

Ma la storia di questa nota pietanza dello street food livornese inizia molto prima. 

Era il 1284, l’anno della Battaglia della Meloria, fra Genova e Pisa, quando un’imbarcazione genovese carica di prigionieri pisani si imbatté in una tempesta riportando gravi danni e imbarcando acqua nelle stive che contenevano le provviste. Fra i prodotti c’erano grandi quantità di ceci che si ammollarono nell’acqua salata imbarcata dalla nave e si mescolarono ai barili di olio trasportato nelle stive andando a creare una poltiglia dall’aspetto poco appetitoso. Ma i giorni passavano e i morsi della fame aumentavano, così qualcuno si riappropriò della propria scodella di poltiglia, che nel frattempo era rimasta al sole e si era seccata, diventando croccante e gustosa. Quindi, almeno secondo questa versione della storia, il merito della ricetta è dei genovesi. Ma mettere la torta di ceci nel pane creando il cinque e cinque è un vanto dei livornesi.

Infatti, la torta di ceci molto probabilmente è di brevetto genovese, dovuto indirettamente ai pisani, ma l’unica cosa certa è che a Livorno va l’indubbio  merito di averla messa nel panino e di aver creato l’irripetibile  5e5! 

Deh! 

E il “deh” detto da un lombardo vale il doppio perché fa ancora più ridere….

LAMPREDOTTO: le origini dello street food fiorentino

L’origine etimologica del lampredotto è davvero particolare. Fino a pochi anni fa, nel fiume Arno era possibile trovare la lampreda, un tipico pesce d’acqua dolce che, durante il Rinascimento, veniva consumato molto dai nobili fiorentini, che ne andavano pazzi nonostante fosse molto caro. Ovviamente i popolani non potevano permetterselo ma, dovendo far fronte alla fame, consumavano i prodotti di scarto delle carni trattate nei macelli che venivano venduti bolliti a buon mercato lungo le sponde dell’Arno. 

La parte del manzo che si prediligeva era l’abomaso, ovvero l’ultimo stomaco che aveva delle crespature simili alla lampreda. 

Da qui nasce il nome “ironico” dato dal popolo al lampredotto, il cibo dei poveri che si contrapponeva al pesce raffinato e caro della nobiltà e del clero.

Una storia antica che affonda le sue radici in usanze e tradizioni popolari antiche che oggi si tramutano in street food anche ricercati e, a volte, resi gourmet grazie alla riscoperta del “quinto quarto” da parte dei più grandi chef italiani. E così la bella Firenze, culla della cultura italiana, ancora una volta ha i riflettori puntati addosso e non smette di stupirci anche se con un piatto povero.

Nei secoli, i fiorentini hanno saputo trasformare questo cibo povero in una vera e propria istituzione della città grazie anche alla presenza capillare nel centro storico dei “lampredottai”, con i loro chioschetti pronti a farvi gustare questa specialità.

Il modo migliore per guastare il lampredotto è dentro il panino toscano. 

A onor del vero, e oramai neanche tutti i fiorentini stessi lo sanno, la ricetta originale vedrebbe solo sale e pepe come condimento. Si sono poi aggiunti la salsa verde, oramai un classico, e l’olio piccante, quest’ultimo secondo alcuni con l’avvento dei gusti di gente di origine meridionale.
Parte fondamentale della preparazione del panino è l’inzuppare la parte superiore nel brodo in cui il lampredotto viene cotto per ammorbidirla e insaporirla, appena prima di consegnare il panino al fortunato che lo mangerà. 

Ma non sempre si preferisce il panino, ecco quindi che il lampredotto viene anche servito a piatto, spesso in umido e con varianti del caso. La più famosa è in zimino, cioé cotto con verdure a foglia grande (bietole o altro).

Se si pensa a Firenze dal punto di vista culinario, quindi ineguagliabile  bistecca alla fiorentina, il lampredotto è una delle prime cose che vengono in mente. 

Il lampredotto è composto da una parte più saporita e magra, la gala, e la spannocchia, un po’ più grassa. 

È possibile assaggiarlo sia come un semplice bollito condito con salsa verde, oppure – alla maniera dei veri fiorentini – come ripieno del panino toscano salato. Viene fatto a pezzettini e messo nel pane, la cui parte superiore viene imbevuta nel brodo di cottura del lampredotto stesso. Altra versione, molto diffusa tra i lampredottai, è quella in zimino: in umido con generalmente le bietole. 

Il lampredotto è custodito gelosamente dentro le antiche mura di Firenze, in quanto è quasi impossibile trovarlo allontanandosi dalla città.

Questa pietanza è tutt’oggi molto diffusa grazie ai moltissimi chioschi dei così detti “lampredottai”, dislocati nelle strade e piazze di tutta Firenze, che permettono a fiorentini e non, di assaporare e gustare una prelibatezza gastronomica che identifica la nostra città nel mondo.

E’ così che è nata, timida e gustosa, una pietanza che non è esagerato dire essere un’opera d’arte culinaria, diventata silenziosamente uno dei simboli della cucina di Firenze.

PIZZA CON LE SFRIGOLE O PIZZA GRASSA (focaccia abruzzese)

La pizza con le sfrigole è una ricetta tipica della tradizione abruzzese. Le sfrigole assumono diversi nomi a seconda della regione, vengono chiamate anche ciccioli, sfrigoli, grasselli. La ricetta è altrettanto diffusa, in molte regioni del centro sud Italia. 

Gli sfrigoli sono un prodotto che si ottiene dalla lavorazione del grasso del maiale nella preparazione dello strutto. Il grasso viene tagliato in piccole parti e lo si lascia cuocere a fuoco molto lento, la parte liquida che si ottiene è lo strutto, mentre le parti solide rimanenti sono gli sfrigoli, vengono poi conservati interi o sbriciolati.

Un’icona della gastronomia della città umbra, nata nel Dopoguerra durante la ricostruzione.

Il segreto è nella sfoglia morbida e friabile. Tutto il resto è un’immersione nella ghiotta memoria che attraversa il tempo, in una terra dove ricette generose e possenti la fanno da padrone.

 La pizza grassa è un autentico simbolo ternano: croccante, ruvida, intensa, sostanziosa e popolare.

TORTA AL TESTO

La torta al testo, conosciuta anche come torta bianca, pizza sotto il fuoco, torta del panaro, ciaccia o crescia, è una focaccia bassa tipica della gastronomia umbra.

 A base di farina, sale e acqua, ha origini molto antiche e non va confusa con la piadina romagnola.

Ma dove nasce l’usanza della cottura sul testo? 

Si tratta di una pratica già diffusa nell’Antica Roma, dove le tegole di laterizio su cui si usava cuocere le focacce erano indicate col termine latino “textum”. 

La diffusione della torta al testo umbra, tuttavia, è un’eredità culturale dell’epoca bizantina. È ai bizantini, infatti, che si deve l’introduzione nel territorio italiano di specialità che ricordano la pita greca e lo yufka (il tipico pane turco in cui viene servito il dürüm kebab), di cui la torta al testo può essere considerata parente stretta. 

Non a caso, proprio, lungo quello che storicamente era il cosiddetto “corridoio bizantino”, che collegava Ravenna a Roma, dividendo l’Umbria in tre territori (con il Ducato di Tuscia a ovest e il Ducato di Spoleto a est), incontriamo ancora oggi le città in cui questa specialità si è diffusa, pur con nomi diversi. Se torta al testo è il modo in cui è conosciuta a Perugia e in tutta l’area intorno al lago Trasimeno, a Gubbio è nota come crescia, mentre ancora più a nord, nell’area di Città di Castello, la chiamano ciaccia.

La torta al testo s’è dunque radicata nella cultura umbra, nella provincia di Perugia in particolare, evolvendosi nel tempo.

Dapprima, trovando l’apprezzamento anche delle famiglie più benestanti, che per distinguersi però dalle classi più povere usavano prepararla con la farina di mais invece di quella di grano, ed è proprio quest’ultima versione che ha trovato larga diffusione e apprezzamento. 

Come tutte le specialità casalinghe poi, si sono diffuse tante varianti alla ricetta tradizionale. 

C’è chi, ad esempio, usa l’accorgimento dell’acqua frizzante, per favorirne la lievitazione, chi preferisce usare direttamente il lievito al posto del bicarbonato, chi aggiunge all’impasto un po’ di latte per conferirgli maggiore sofficità interna o un altro grasso come l’olio o lo strutto, e chi, ancora, lo rende più carico di gusto con del parmigiano o con l’uovo.

 Infine, a cambiare è anche lo spessore: c’è infatti chi gradisce “affondare il morso” incontrando uno strato di pasta più consistente e, quindi, la lascia quindi alta ben oltre il normale, chi, invece, la preferisce tirata più sottile (anche se, in genere, non è mai più bassa di un centimetro). 

Si potrebbe dunque dire: famiglia che vai, ricetta che trovi. 

LA TORTA AL TESTO è rimasta, infatti, nella tradizione della regione Umbria anche grazie al suo stretto legame con la cultura contadina. 

Essa, infatti, per anni veniva usata come alternativa al pane quando quest’ultimo era ancora un bene che si potevano permettere in pochi. 

Diffusasi maggiormente nella provincia di Perugia, inizialmente veniva preparata utilizzando sia farina di mais che quella di grano, ed è proprio quest’ultima versione che oggi viene più apprezzata.

Esistevano due versioni di questa focaccia, una – quella più diffusa – a base di grano, e una a base di mais.

 Dopo la cottura, la torta al testo si divideva in fette quadrate (nel perugino erano tradizionalmente 6 e chiamate particelle) e si mangiava così com’era, senza farciture, oppure con un po’ di formaggio o verdura. 

Oggi è un cibo da asporto che si può trovare nelle panetterie, nelle pizzerie e nelle sagre di paese  ma che si prepara facilmente anche in casa. Si gusta spaccata e riempita con verdure ripassate, prosciutto umbro, salsiccia cotta, coppa, porchetta, ciauscolo e formaggi, ma non è inusuale trovarla farcita anche con crema al cioccolato.

Comunque, nonostante sia ancora poco conosciuta a livello nazionale,  la capacità di unire semplicità e gusto ha contribuito a rendere la torta al testo un apprezzatissimo street food umbro.

BRUSTENGO O BRUSTENGOLO il dolce tipico di Perugia

Si tratta di un dolce povero, fatto un tempo con la farina di granturco, abbastanza diffuso nelle campagne umbre, dove comunque si preferiva consumare pane di frumento. 

Brustengolo, un trionfo di farina di mais e frutta secca che da tempo immemore rende l’autunno più dolce e piacevole.

E’ difficile collocare temporalmente le origini del Brustengolo nella zona di Perugia e delle campagne circostanti.

 La tradizione legata alla sua preparazione è, però, ampiamente documentata in ogni pubblicazione dedicata alla cucina umbra, a testimonianza di quanto questa usanza sia ormai da tempo radicata nella cultura locale. 

Questo dolce dal nome così particolare non è che una delle gustose ricette locali dalle caratteristiche semplici e dagli ingredienti umili. Come molti dei prodotti diffusi nella zona del capoluogo umbro, infatti, anche il Brustengolo si distingue per le evidenti origini povere, facilmente individuabili nella scelta dei suoi ingredienti principali, di cui il più importante è la farina di granoturco, un cereale che nelle campagne perugine veniva coltivato in maniera estensiva. 

L’usanza di arricchire l’impasto con mele, frutta secca ed appena una spruzzata di liquore, rivela la tendenza tipica della cucia povera di utilizzare quanti più ingredienti si avevano a disposizione per insaporire la propria ricetta e renderla più gustosa e succulenta. Il risultato, come spesso avviene per i piatti della tradizione più umile, è estremamente saporito e sfizioso e non meraviglia, quindi, che nel corso del tempo questo dolce sia diventato un prodotto tradizionale particolarmente apprezzato.

Il 
Brustengolo, o Brustengo (che non ha nulla a che vedere con la ricetta eugubina dell’arvoltolo, anch’essa chiamata brustengo), ha meritato l’inserimento nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizion

ali della regione umbra. Allontanandosi dalla zona di Perugia, lo stesso dolce può assumere altri nomi come 

Frostengo o Frustingolo.

Preparato con forma rettangolare (più frequente) o rotonda, il Brustengolo è un dolce basso, alto circa due dita, e secco che si distingue per il tipico colore giallognolo conferito all’impasto dalla farina di mais. Essendo privo di glutine, il mais non fermenta e dunque nella versione tradizionale non è necessario l’utilizzo di lievito. L’impasto viene arricchito con uva sultanina, noci, nocciole, pinoli, mele a fette e, talvolta, persino fichi secchi che rendono il dolce particolarmente succulento e sostanzioso.

Un tempo preparato esclusivamente nel periodo autunnale, come suggeriscono gli ingredienti utilizzati tipici di questa stagione, oggi il Brustengolo si produce durante l’intero arco dell’anno, con particolare intensità nel periodo delle Feste, durante le quali si va ad affiancare ai dolci tipici della tradizione natalizia. Sebbene si tratti di una ricetta originaria di Perugia e delle campagne che la circondano, è ormai una preparazione diffusa

in numerose località della regione.

SEADA (o sebada, o sevada o siàti)

Le seadas sarde a base di semola, formaggio e miele sono uno dei piatti simbolo della tradizione gastronomica isolana.

Il dolce, chiamato nelle diverse varianti linguistiche dell’isola: seada,  sebada, seatta, sevada, sabada, casgiulata, ha un nome che pare derivi dalla parola latina sebum, ed è così chiamata per il suo aspetto untuoso, o anche perché in sardo si chiama seu il grasso animale, ozu seu.

E’ un dolce diffuso in tutto il territorio regionale e principalmente dove prevale l’economia pastorale.

Nell’isola, oggi, che si traduce la lingua locale in italiano, ha perso il singolare e ogni ristorante, pur servendo un dolce individuale,  scrive sul menù al plurale: “seadas – sebadas”.

La seada ha una forma tondeggiante, un involucro soffice e leggero ed un ripieno di formaggio leggermente acidulo e filante. Viene servita con una guarnitura di miele formando così un mix di sapori che la rende davvero irresistibile. 

Tipico piatto di quella che viene definita “cucina povera”, la seada ha una storia antica e le origini del suo nome appaiono controverse.
Secondo alcuni esperti di cucina la derivazione del termine seada sarebbe spagnola, dato che l’isola è stata per alcuni secoli sotto la dominazione spagnola, mentre altri fanno derivare questo nome da un termine latino, “sebum” che non si lega al suo aspetto, ma all’abitudine di utilizzare nel corso della preparazione, del grasso animale, “seu” in lingua sarda.

Le seadas sono oggi il dolce sardo maggiormente usato come dessert, ma nell’antichità erano piuttosto un secondo piatto che faceva parte dell’economia pastorale. Le origini della seada sono legate alle zone interne della Sardegna caratterizzate da un paesaggio aspro e brullo come la Gallura, l’Ogliastra, la Barbagia e il Logudoro, dove si preparava soprattutto per dei festeggiamenti speciali come la Pasqua e il Natale, quando le famiglie erano riunite dopo che i pastori rientravano dalla transumanza.

In quegli anni la seada era “salata” e più grande di quelle attuali, in modo da appagare gli appetiti dei pastori; successivamente è divenuta un dolce, grazie anche all’aggiunta del miele che non era presente nella ricetta “primitiva”.
Il miele che viene usato maggiormente è quello di corbezzolo o di castagno.

La variante salata è comunque ancora presente in Sardegna anche se in piccolissime zone dell’isola. La seada è un dolce che ha molte similitudini in ricette del mondo antico. 

Già Catone il Censore nel suo libro “De Agri coltura” cita una ricetta che chiama Placenta, che risulta essere un  dolce fatto con una sfoglia di farina impastata con  acqua e formaggio di pecora fresco, ammollato nell’acqua e mescolato col miele. In un’altra ricetta  chiamata Globi, il formaggio fresco veniva fritto nello strutto e condito con miele.

Nel romanzo del mondo classico, Satyricon di Petronio, è descritta una pietanza che Trimalcione offre dopo un funerale, fatto con farina  e formaggio intriso di miele. 

Anche Ateneo nel suo Depinosofisti  cita dolci simili e uno lo chiama Amorbites: “formaggio e miele mischiali insieme e aggiungi altro miele se ce ne fosse il bisogno” .

PANE CARASAU SARDO

E’ il pane tipico della Sardegna. Il termine deriva da “carasare” ovvero tostare in italiano. In sostanza è un disco molto sottile e molto croccante.

Secondo alcune teorie perché fa rumore quando lo si mastica secondo altre perché ricorderebbe un po’ uno spartito invecchiato. 

Infatti, il pane sardo detto “carta da musica” è originario della Barbagia, una regione della Sardegna posta a ridosso del Gennargentu. Il nome “carasau” deriva dalla parola sarda “carasare”, cioè “tostare”, in riferimento all’ultima fase di preparazione del pane quando viene rimesso nel forno per ottenere la tipica croccantezza.

Secondo alcuni archeologi il pane carasau  era presente in Sardegna già prima del 1000 a.C., durante l’era del bronzo. La storia più recente però racconta che l’alimento nacque come cibo per i pastori sardi. Infatti le caratteristiche del pane carasau, cioè la lunga conservazione e il grande apporto energetico, lo resero il cibo ideale per i pastori nei periodi di transumanza, quando dovevano restare lontani da casa per diverse settimane. Così le mogli dei pastori, utilizzando soltanto la farina di grano duro o di orzo, preparavano il pane carasau  abbinandolo al formaggio di capra, pecora o ricotta.   

Il pane carasau inoltre, grazie alla sua consistenza, fungeva anche da piatto, cioè conteneva il resto del cibo e veniva consumato per ultimo.

In generale il pane carasau  si consuma o al naturale, per accompagnare  piatti dolci o salati, oppure immerso in acqua diventando il  pane “infutsu”, più morbido ed ideale per essere farcito con salumi 
formaggi.

 

Inoltre se il pane carasau  viene  condito con olio e sale diventa il pane “guttiau”, mentre se ogni singola sfoglia viene immersa in acqua bollente e cosparsa di pomodoro pecorino 
diventa pane “frattau”.

I CULURGIONIS D’OGLIASTRA

Culurgiònisculurgiones si tratta di una preparazione a base di patate tipica dell’area centro-orientale della Sardegna, l’Ogliastra, la cui tradizione è antichissima e si rifà a quella della cucina povera sarda: il ripieno della pasta era adeguato a seconda della disponibilità dei prodotti del territorio. 

La loro caratteristica principale è il ripieno interno, che secondo la ricetta originale deve essere a base di purea di patate, aglio, pecorino e menta. In realtà ne esistono infinite varianti, una per ogni paese dell’Ogliastra, a volte persino una per ogni famiglia dello stesso paese. I culurgiones hanno alle loro spalle hanno una storia non indifferente.

Si pensi che la tipologia di pasta è antichissima e la farcitura risale già ai primi anni dell’Ottocento, periodo in cui, grazie al clima favorevole, alla ricchezza d’acqua e alla secolare presenza di orti, nelle zone montagnose dell’Isola – in primis Barbagia, Gallura interna e, naturalmente, Ogliastra – iniziò a diffondersi il Solanum tuberosum.

Le donne ogliastrine avevano persino inventato un attrezzo rudimentale (simile agli antichi ferri da stiro, in legno di castagno e ancora oggi osservabile nei musei etnografici locali) per schiacciare le patate e ridurle a purea. Questo tubero veniva utilizzato molto frequentemente in cucina, ma in realtà, serviva più che altro per arricchire l’impasto del pane.

 I culurgiones, al contrario, costituivano un piatto festivo, tardo autunnale e invernale, ritenuto un lusso. L’alimentazione quotidiana, invece, di fatto, seppur salutare, era povera, priva di sfarzi e si basava essenzialmente su minestre e zuppe di legumi e verdure.

Quindi, mentre nella tradizione, secondo le testimonianze raccolte dagli anziani sardi, era consuetudine preparare i culurgiones solo ed esclusivamente in determinate occasioni (per onorare i morti il 2 novembre, giorno della loro commemorazione; per festeggiare il carnevale a febbraio; per regalarli al vicinato come dono prezioso segno di stima, di rispetto ed amicizia e addirittura come amuleto per la protezione di tutta la famiglia dai lutti; o per ringraziare l’annata agraria di raccolta del grano e propiziare quella successiva a fine agosto), oggi questa pasta fresca ripiena (per fortuna) si consuma abitualmente.

LA PAMPANELLA di San Martino In Pensilis (MOLISE)

Girovagando tra i piccoli centri molisani alla ricerca delle bontà più autentiche, proprio nel comune di San Martino in Pensilis, in provincia di Campobasso, si scopre una delle ricette più antiche della regione: la Pampanella, una succulenta delizia a base di carne di maiale ideale per chi è alla ricerca di piatti dal sapore deciso.

Le origini di questa pietanza si perdono nella tradizione del racconto popolare.

Si narra, infatti, che la Pampanella  sia nata nel Medioevo nel  Molise grazie ai numerosi allevatori che nel corso dei secoli hanno solcato le vie della Transumanza.

A quel tempo i contadini e i pastori presero l’abitudine di cuocere la carne  per tre giorni in una buca scavata nel terreno, dopo averla avvolta nei pampani (foglie) della vite; in questo modo si potevano utilizzare le foglie anche come supporto e consumare la pietanza con maggiore comodità.

Da questa usanza deriverebbe il nome “Pampanella”.

Questo simbolo della gastronomia locale, nel territorio di San Martino in Pensilis,  viene valorizzato e custodito anche grazie alla Denominazione Comunale di Origine, conferita dall’Amministrazione Comunale, e tutelato quale Prodotto Tradizionale del Molise dal 1999, in seguito al riconoscimento della Regione.

Non si conosce molto altro sulla storia di questa prelibatezza, certo è che la sua preparazione segue una procedura precisa e, per alcuni aspetti, anche segreta.

Al termine della cottura la carne  si presenta come ricoperta da uno spesso mantello color rosso fuoco, il gusto è acceso e ricco di sapore, dovuto in gran parte alla mistura di peperoncini e all’aceto che ne esaltano l’aroma. Una squisitezza assoluta che si accompagna perfettamente agli ottimi vini rossi del territorio molisano.

CASCIATELLI O FIADONI MOLISANI

Il Fiadone è un prodotto da forno  tradizionalmente preparato per le feste pasquali e natalizie, anche se lo si può trovare tutto l’anno.

La prima è più frequentemente diffusa nelle aree litoranee mentre la versione dolce si consuma maggiormente nelle aree interne.

In passato, quando non tutti avevano il forno in casa, venivano portati a cuocere nelle panetterie del paese: le donne facevano a gara per confezionare i ravioli più grossi, dal momento che la dimensione del Fiadone e la ricchezza del ripieno simboleggiavano l’agiatezza della famiglia che li aveva preparati.

Il fiadone salato si presenta con un involucro di pasta sottile, simile ai ravioli e contiene un ripieno di formaggio e/o ricotta e uova. Il termine “fiadone” deriverebbe dal germanico “fladen” latinizzato in “flado” dal significato di “cosa gonfia”, richiamando così una delle sue fasi di cottura.

Dalla forma di grossi ravioli,  esistono sia in versione dolce (farciti con rigatino, zucchero, uova e buccia di limone grattugiata) che salata (ripieni di formaggio, salsiccia secca e uova).

BACCALÀ ARRACANATO

Alimento molto popolare in Molise è il baccalà che viene preparato in diversi modi: tra tutti il più diffuso è il baccalà arracanato che significa gratinato.

Questo piatto si prepara in genere in occasione della Vigilia di Natale e consiste nel cuocere il baccalà all’interno di un tegame nel forno, cosparso con olio, vino e alloro per un risultato molto gustoso.

La parola arrecanato (e anche arracanato) deriva da un altro termine dialettale fittizio: origanato, ad es. cibo con un pronunciato aroma di origano.

Anticamente, nei dialetti salentini, molisani e pugliesi, l’origano si riferiva a qualsiasi piatto preparato con olio d’oliva, sale, aglio, prezzemolo, pangrattato e origano.

Di regola, l’arrecanato (o origanato) veniva cotto sul carbone o in una stufa a legna, ora, in condizioni moderne, questi piatti vengono cotti al forno.

Tra l’altro, nel tempo, nella preparazione dei piatti di origano, l’uso dell’origano aromatico è notevolmente diminuito, e in molti casi è scomparso del tutto, e molte casalinghe moderne usano questo termine per indicare la cottura al forno come gratin.

PORCHETTA DI ARICCIA

La Città di Ariccia è una delle località più conosciute e popolari tra quelle che vanno a formare l’area dei Castelli Romani a poca distanza da Roma. 

La sua fama è legata indissolubilmente ad un famoso piatto della tradizione Italiana e Romana: la Porchetta di Ariccia.

Ariccia è una delle località più conosciute e popolari posta a breve distanza da Roma, dove a differenza di altri paesi limitrofi il legame con la porchetta e la sua produzione vanta una tradizione millenaria.

Infatti, non solo si attribuisce ad Ariccia l’origine dei sacerdoti che lavoravano e preparavano le carni suine da offrire in sacrificio nel tempio di Giove Laziale sul vicino Monte Cavo, ma si ritiene anche che grazie alla presenza della nobiltà romana, succedutasi nel corso della storia e che era solita trasferirsi ad Ariccia per la stagione estiva o per organizzare battute di caccia, si sia potuta sviluppare quella maestranza artigiana nel preparare la porchetta presente ancora oggi e che continua a tramandarsi nelle famiglie ariccine da padre in figlio.

La reputazione contemporanea della “Porchetta di Ariccia” risale al 1950 quando i porchettari di Ariccia allestirono la prima “Sagra della Porchetta di Ariccia”, con lo scopo di celebrare questo prodotto tanto gustoso quanto all’epoca già noto.

Da allora ogni anno ad Ariccia si svolge questa manifestazione suggestiva e caratteristica dove viene offerta la porchetta su banchi addobbati a festa da venditori vestiti con gli abiti tradizionali ariccini.

Testimonianza di ciò è l’“Estratto dal Registro degli atti della Giunta Comunale, del 14 settembre 1962, relativo al contributo per la festa della Patrona S. Apollonia e della Sagra della Porchetta”, trovato negli archivi del Comune di Ariccia a dimostrazione dell’importanza pluridecennale che la Porchetta di Ariccia I.G.P. ha nelle tradizioni popolari locali.

A proposito della sagra, Vincenzo Misserville, nel 1958, nella rivista “I castelli Romani – Vicende, Uomini, Folclore” scrive:


“Tra le numerose sagre dei Castelli Romani, quella ariccina “della Porchetta e del Pane casareccio” è forse l’unica che, per il suo carattere di semplicità paesana, giustifica il suo appellativo: persino nella denominazione essa ha un sapore schiettamente casalingo”.


Nel 1974, Giulio Cesare Gerlini, nel libro “Ariccia Storia-Arte-Folclore”, scrive, a proposito della Porchetta di Ariccia, che:


“l’arte di preparare i porcellini destinati a diventare“porchetta”, si può dire che è una esclusività di poche famiglie ariccine i cui componenti si tramandano di padre in figlio.”

I produttori della “Porchetta di Ariccia” IGP hanno mantenuto invariata negli anni la tradizione artigiana della preparazione della porchetta, tramandando di generazione in generazione l’arte di condire, aromatizzare, legare e predisporre la porchetta alla cottura al forno.
Nel 1957, lo scrittore Carlo Emilio Gadda, nel suo romanzo “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, riporta una puntuale descrizione di come veniva venduta la porchetta di Ariccia a Roma e illustra chiaramente la già nota reputazione del prodotto.

Un venditore di porchetta, infatti, esclama:

“La porca, la porca! Ciavemo la porchetta signori! La bella porca de l’Ariccia co un bosco de rosmarino in de la panza! Co le patatine de staggione!…

Carne fina e delicata, pe li signori proprio! Assaggiatela e proverete, v’oo dico io, sore spose: carne fina e saporita!… Porchetta arrosto cor rosmarino! e co le patate de stagione…”.

SUPPLÌ - Il fritto più amato dai romani

Surprise. Che si pronuncia esattamente così come si legge, alla francese: insomma supris e non, all’inglese, surprais. D’altronde, pare che l’origine della parola supplì sia il termine “sorpresa” tradotto nella lingua dei cugini d’Oltralpe, dove la sorpresa è, lo avete già capito, quel cuore di formaggio filante che porta ogni romano ad asserire che un supplì degno di questo nome debba essere “al telefono”, ovvero col filo che si forma e tiene unite le due metà del fritto.

L’ipotesi più plausibile (e coerente con la spiegazione etimologica) ne collega l’origine all’arrivo delle truppe francesi a Roma, nel 1809. Solo quattro anni prima, le truppe napoleoniche avevano occupato il Regno di Napoli, dove – a causa della dominazione borbonica – le tradizioni culinarie erano state influenzate da quelle del Regno di Sicilia. Ed è proprio sull’isola che bisogna approdare per ricostruire il primo passaggio che avrebbe portato (anche) alla nascita del supplì: l’introduzione del riso da parte degli Arabi. Proprio il riso da cui è stato creato l’arancino o arancina e che, arrivato nell’attuale capoluogo campano, è diventato il protagonista di un prodotto indiscutibilmente simile all’originale: a pall ‘e ris, la palla di riso. Quella palla di riso che, varcati i confini, avrebbe trovato a sua volta a Roma una nuova identità fino a diventare… un supplì.

La prima testimonianza scritta dell’esistenza del supplì risale al 1847: è indicato con “la soplis di riso” nel menu della Trattoria della Lepre in via dei Condotti, amatissima da scrittori e intellettuali come Gogol e Melville. Tuttavia, la soplis era principalmente una pietanza di strada, servita per le strade della città eterna dai “supplittari”, gli ambulanti che giravano con un calderone colmo d’olio bollente e friggevano le crocchette sul momento. Tra i grandi estimatori di questo street food d’altri tempi si può annoverare addirittura James Joyce, come confessò lo scrittore stesso in un’intervista del 1927 rilasciata alla collega Sibilla Aleramo ricordando il suo primo soggiorno romano. Certo, il supplì come lo gustiamo oggi non era lo stesso amato dallo scrittore irlandese: secondo la ricetta di Ada Boni, pubblicata nel 1929 nel libro La cucina romana, il ripieno è molto vario e “più ricco o meno ricco, secondo l’opportunità”: l’autrice cita rigaglie di pollo cotte nel sugo e nello strutto, funghi secchi e carne in umido tritata. Il pomodoro e la mozzarella filante non sono ancora contemplati come varianti della preparazione del supplì e lo stesso riso è solo condito con il ripieno ma non prevede risottatura, sarà infatti solo negli anni Cinquanta che la ricetta verrà rimaneggiata e portata a quella odierna.

Tuttavia, sarebbe errato dire che esista una ricetta univoca e definitiva del supplì: vanno costantemente aggiungendosi differenze, sperimentazioni e varianti, di anno in anno e di ristorante in ristorante. Esistono supplì al ripieno di carbonara e cacio e pepe, supplì vegetariani senza carne, supplì “in bianco”, all’amatricianaal basilico… Certo, il caro vecchio supplì al telefono, ricetta non antica ma diventata classica, è sempre squisito. Il buffo nome che spesso compare come dicitura completa in alcune rosticcerie deriva proprio dal fatto che, quando si dà il primo morso, la mozzarella filante all’interno del ripieno unisce le due metà della crocchetta, collegandole tra loro come il filo del telefono alla cornetta.

PIZZA BIANCA ROMANA

Avvolta nella carta oleata marroncina, morbida, profumata, la striscia di pizza bianca è lo street food più antico della Capitale, più antico dei supplì e più antico, ovviamente, dell’espressione stessa street food. La pizza bianca si mangia nell’Urbe da duemila anni, da quando i fornai della Roma Antica usavano saggiare la temperatura del forno mettendo a diretto contatto con la superficie un po’ di impasto del pane schiacciato alla buona con le mani. Una volta cotta, questa schiaccia (che Orazio chiama picea… vi ricorda qualcosa?) non era gettata via ovviamente, ma si gustava lì per lì, caldissima e fragrante.
E fu così che inevitabilmente divenne lo spuntino più diffuso in città. Già all’epoca si mangiava condita con olio e sale oppure farcita con ripieni semplici ed economici come i fichi, che ancora oggi sono considerati un companatico perfetto grazie al loro sapore dolce che si fonde magistralmente con il carattere salato e untuoso della piazza bianca.

Nel tempo, la pizza bianca è diventata parte integrante della produzione dei panifici romani.

Questa specialità non va confusa, infatti, con la piazza bianca delle pizzerie al taglio o con le sue cugine italiane stiaccia e fugassa.

La pizza bianca del fornaio di Roma ha un’identità ben precisa, perché si distingue dagli altri prodotti simili per metodo di preparazione, lievitazione e cottura. Tutte caratteristiche che di recente l’Associazione Provinciale Panificatori di Roma ha deciso di preservare richiedendo, per la pizza bianca romana, la dicitura indicazione geografica protetta (IGP).

Quando vi dicono “Cosa sarebbe la pizza bianca… intendi la focaccia?”, potete tranquillamente rispondere: “No, l’impasto è diverso!” Quello della pizza bianca  è estremamente idratato: la percentuale di acqua può arrivare anche all’80%, rispetto a un 50-60% di un impasto per focaccia qualsiasi. Insomma, l’impasto che si ottiene è più elastico.

Anche la lievitazione è fondamentale: si utilizza il lievito madre (o altro pre-impasto) e si lascia riposare a lungo in una ciotola, consentendo al glutine di svilupparsi pienamente.

Il risultato è quello che potete ammirare in un qualsiasi forno della città: un interno estremamente soffice e alveolato, un esterno fragrante e un bordo basso e croccante (anzi, diciamo pure croccantissimo).

Rispetto a una focaccia ligure, la pizza bianca è più bassa, presenta rigonfiamenti dell’impasto e un bordo che scrocchia sotto ai denti, oltre a contenere una quantità di olio leggermente inferiore.

Si riempie soprattutto di mortadella e di prosciutto crudo dolce, due ripieni che nei forni-alimentari sono considerati standard, ma nulla vieta di sperimentare altro (a Roma è molto diffusa anche la pizza bianca con la Nutella).

PITTA CALABRESE

La Pitta calabrese fa parte di quelle ricette tradizionali, tramandate di generazione in generazione nel corso dei secoli, la cui modalità di preparazione non può essere definita con sicurezza. Nessuno potrebbe affermare qual è il procedimento più antico, quello più corretto, rispettoso e fedele alla versione originale.

Vero è, tuttavia, che a conservare un legame forte con il passato sono le tradizioni familiari e le famiglie, vere depositarie e custodi di un antico sapere.

Proprio lì si possono rintracciare le ricette del passato ed è proprio tra le ricette più antiche del ramo calabrese della mia famiglia, come  la ricetta della pitta, che si può definire una sorta di pan-focaccia perché non è esattamente una focaccia ma non è nemmeno pane in senso stretto.

La pitta è un prodotto da forno dalla classica forma a ciambella e dalla mollica morbida e alveolata che lo distingue da altri pani simili.

Consuetudine vuole che venga consumata dopo averla tagliata orizzontalmente per poi farcirla a piacere.

 Se oggi la versione farcita è un autentico tripudio di sapori, nel passato la pitta era ritenuta un pane di poco conto e di importanza trascurabile dal punto di vista nutrizionale.

Infatti, nonostante fosse confezionata in ogni famiglia, a Vibo Valentia veniva chiamata “jettata”, ossia “gettata via”, per il fatto di essere infornata per prima e con l’unico scopo di sincerarsi che il forno avesse raggiunto la temperatura ideale per la cottura del pane.

Un’altra curiosità riguarda la sua forma  perchè  pare che, in origine, il tipico buco della ciambella fosse più accentuato.

 Le massaie più anziane ricordano che tra il diametro interno e quello esterno non corressero più di 5 centimetri e descrivono una mollica ridotta rispetto all’epoca più recente, verosimilmente per via della scarsa disponibilità di carne con cui farcirla.

Da sempre, l’area principale in cui è nata e si è diffusa la pitta corrisponde al territorio intorno alla città di Catanzaro, dove il termine “pitta” si traduceva (e si traduce ancora) con “schiacciata di pane”.

 Proprio in questa città, la sua preparazione è strettamente legata ad altri due piatti tipici e molto popolari in tutta la provincia che ne costituivano la sua farcitura o, semplicemente, ne accompagnavano il consumo.

Queste ricette sono “u’suffritt”, un preparato a base di carne di maiale mista a frattaglie, e “u’morzeddhu” un miscuglio di trippa vaccina e interiora.

Si ritiene che l’origine della pitta sia antichissima.

Alcune fonti sembrano propendere per una discendenza greca e, secondo Gerhard Rohlfs, la parola pitta deriverebbe dal greco πίτα anche se l’ipotesi più credibile lega questa tipicità calabrese – seppur con qualche differenza – alla Placenta romana di cui a darci notizia è  Catone il Vecchio.

Etimologicamente, infatti, pitta proverrebbe dal latino “picta” cioè “dipinta” per indicare l’usanza romana di offrire in dono agli dei delle focacce decorate.

Al di là delle congetture degli studiosi sulla sua nascita, va precisato che quando si fa riferimento alla pitta non si parla di un unico metodo di lavorazione né di un’unica modalità di presentazione finale: le ricette della pitta sono tante e variano a seconda delle province e dei prodotti tipici locali.

Se in tutta la provincia di Catanzaro, la pitta è preparata come una ciambella riempita con il classico murzeddhu, in altre aree della regione è conosciuta con il nome di cullura e si presenta in una versione più semplice, condita con olio e origano, oppure imbottita con gli ingredienti più disparati, dalla provola silana alla salsa di peperoncini e pomodori freschi, oppure con la sardella, ossia il novellame di acciughe e sardine condite con peperoncino e finocchietto selvatico.

Ci sono anche località, ad esempio, in cui per pitta si intende una focaccia che viene infornata con il condimento già inserito nell’impasto. È il caso della versione nota come “Pitta rustica” o “Pitta china”, una variante molto popolare che le donne ancora preparano liberando la loro fantasia e a cui, soprattutto in estate, accostano i prodotti freschi dell’orto.

 Il risultato finale è una sorta di pizza a doppio strato, generalmente ripiena di pomodori, erbe selvatiche di campo (chiamate “erbi i margiu”), olive nere, alici, salamino, ricottine o le famose cipolle rosse di Tropea, insomma si utilizza ciò che è disponibile o che rispecchia il proprio gusto.

Negli ultimi anni, si sono diffuse anche versioni dolci come quella che prevede l’aggiunta di abbondante crema al cioccolato ricoperta di zucchero a velo oppure la pitta “nchiusa o mpigliata”, il saporito dolce natalizio diffuso tra Cosenza e Catanzaro.

A Bova, in provincia di Reggio Calabria, è popolare la “Lestopitta”, una versione grecofona della pitta il cui nome significherebbe “pitta veloce” e la cui forma ricorda quella del pane pita ellenico o della nostrana piadina romagnola. Come quest’ultima, la lestopitta  vanta un impasto decisamente più semplice rispetto alla pitta originale, ottenuto da farina, acqua, olio extravergine di oliva, sale e privo di lievito. Dopo una semplice cottura su una padella unta con olio, si consuma con salsiccia arrostita, ciccioli di maiale, una spolverata di peperoncino o, più comunemente, con i salumi e i formaggi tipici calabresi.

La presenza della Pitta veloce a Bova, paese in cui sopravvive un lembo di cultura e lingua greca, il grecanico, proveniente direttamente dalla Magna Grecia, è anche ciò che farebbe propendere gli storici della cucina per un’origine ellenica della Pitta calabrese, in luogo di quella romano-italica, certamente più accreditata. Alla stessa matrice ellenica, sembra ritenersi dover far risalire la variante fritta con il miele, diffusa sulla costa tirrenica cosentina.

LA ‘NDUJA CALABRESE

La Calabria oggi vanta molte eccellenze culinarie e, quando si parla di gastronomia relativa a questa regione, c’è spesso un unico comune denominatore: il peperoncino.

Fra i prodotti tipici più rinomati, c’è sicuramente la ‘nduja calabrese, il salume morbido e piccante che oggi viene spesso eretto a simbolo di una regione intera, nonostante la sua produzione originaria sia di una città e una zona in particolare.

La ‘nduja è, infatti, tipica dell’altopiano del Poro, più precisamente di Spilinga, che ne è considerata la capitale: l’8 agosto, per tradizione, nella cittadina della Costa degli Dei, si tiene la Sagra della ‘Nduja, che porta migliaia di turisti ogni anno.

Sulla nascita della ‘nduja gli storici si dividono: c’è chi crede che sia stata creata intorno al 1500, portata in Italia dagli spagnoli assieme al peperoncino, mentre altri ne collegano la tradizione all’arrivo dei francesi nella penisola all’inizio del 1800.

Sembra che in quel periodo, Gioacchino Murat, avesse fatto distribuire gratuitamente un salume francese a base di trippa, per entrare nelle grazie dei Lazzari dello stato partenopeo.

Ad avvalorare quest’ultima tesi c’è il fatto che il termine ‘nduja sembra avere origini transalpine e derivare da andouille, un insaccato francese fatto con la trippa di maiale.

Anche in Piemonte esiste un termine simile, il “salam d’la duja”, e l’ipotesi più accreditata è che tali espressioni derivino dal latino “inductilia” e da “inducere”.

U’MORZEDDHU

La storia che si raccontai è una storia antica, legata a una terra atavica come i sogni che arrivano dalle più remote zone dell’anima.

E’ la storia di un piatto che ancora oggi continua a prodursi nella città calabrese di Catanzaro: ‘u morzeddhu.

Uno dei simboli di una cucina che ha alle sue spalle quasi 3.000 anni di storia.

Per molto tempo, tra il 1800 fino al 1970 circa, il morzello (versione italianizzata del nome dialettale) era lo spuntino di mezza mattinata per manovali e operai, ma ormai è ricercatissimo da tutti gli amanti della cucina rustica.

Tale pietanza, a base di carne di vitello, è ancora oggi considerata uno dei simboli della città di Catanzaro.

Le origini del Morzello sono da ricercarsi nella provincia di Catanzaro tra le cittadine di Catanzaro, Tiriolo e Taverna anche se il nome della pietanza deriva dallo spagnolo “al muerzo”.

La leggenda cui si lega la nascita del Morzello narra che una donna di nome Chicchina, dopo aver perso il marito ed essere rimasta sola con i suoi figli dovette adattarsi a fare i lavori più umili per tirare avanti. Nel periodo di Natale, la donna fu chiamata a pulire il cortile dove venivano macellati gli animali e a raccogliere le frattaglie da smaltire alla Fiumarella. Poiché versava in una condizione di miseria, si avvicinava la vigilia di Natale e non sapeva cosa preparare per il pranzo di Natale, per cui decise di pulire per bene tutte le frattaglie per farne una “zuppa di carne” e la chiamò così perché la carne è tagliata in piccoli pezzi (in dialetto catanzarese “morzha morzha”).

Gli ingredienti più antichi di questo piatto sono: il cuore di vitello (chorettu), i polmoni, la milza, il fegato, lo stomaco, la trippa, l’intestino (questo ingrediente non è più utilizzato perché per essere pulito alla perfezione richiede particolari procedimenti ed esperienza), concentrato di pomodoro, peperoncini piccanti, sale, origano, e alloro. Può essere servito nel piatto o, come vuole la tradizione, nella morbidissima pitta detta “a ruota di carro” (pane casereccio di forma circolare con una circonferenza interna abbastanza ampia, cosi che il pezzo tagliato risulti lungo e stretto).